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Come gli italiani divennero bianchi

Il «New York Times» racconta come la bianchezza non sia un colore ma un apparato politico

Traduzione e note di Salvatore Palidda

Il Congresso aveva immaginato un’America bianca, protestante e culturalmente omogenea [NT: cioè waspwhite anglosaxon protestant] quando dichiarò nel 1790 che solo «i bianchi liberi, che hanno o devono emigrare negli Stati Uniti» potevano diventare cittadini naturalizzati [NT: a ciò risalgono le Anti-miscegenation laws, leggi contro il mescolamento di “razze” in auge in tanti stati USA sino al 1967, cfr; tali leggi vietavano agli europei del sud di abitare nei quartieri di bianchi, mandare i figli in scuole wasp e sposare un/a wasp].

Il calcolo del razzismo subì una rapida revisione quando ondate di immigrati culturalmente diversi provenienti dagli angoli più remoti dell’Europa cambiarono il volto del paese. Come lo storico Matthew Frye Jacobson mostra nella sua storia degli immigrati «Bianchezza di un colore diverso» [Whiteness of a Different Color. European Immigrants and the Alchemy of Race, 1999] l’ondata di nuovi arrivati generò un panico nazionale e portò gli americani ad adottare una visione più restrittiva e politicizzata di come dovesse essere assegnato il colore bianco. Giornalisti, politici, scienziati sociali e funzionari dell’immigrazione hanno abbracciato questa attitudine, separando gli europei apparentemente bianchi in “razze” [White on Arrival Italians, Race, Color, and Power in Chicago, 1890-1945, di Thomas A. Guglielmo; aggiungo: nel sito di Ellis Island gli immigrati italiani erano schedati con: nationality e anche con etnicity … per gli originari del Sud era Italian South – è il caso del padre di chi qui traduce].

Alcuni sono stati designati “più bianchi” – e più degni di cittadinanza – di altri, mentre alcuni sono stati classificati come troppo vicini al nero per essere socialmente ammessi come bianchi. La storia di come gli immigrati italiani sono passati dallo status di paria razzializzati nel 19° secolo a quello di bianchi americani in regola nel 20° mostra una finestra sull’alchimia attraverso la quale è stata costruita la “razza” negli Stati Uniti e come la gerarchia razziale [razzista] può talvolta cambiare [qui si cita Working Toward Whiteness: How America’s Immigrants Became White: The Strange Journey from Ellis Island to the Suburbs, di David R. Roediger, del 2006 e aggiungo il celebre Are Italians White?, 2003, di J. Gugliemo, pubblicato anche in italiano nel 2006: «Gli Italiani sono bianchi?»].

Gli italiani del sud con la pelle più scura subirono le pene dei neri su entrambe le sponde dell’Atlantico. In Italia, i settentrionali avevano a lungo sostenuto che i meridionali – in particolare i siciliani – erano un popolo “incivile” e di razza inferiore, ovviamente troppo africano per far parte dell’Europa [la tesi razzista sui meridionali fu sostenuta da Lombroso e dai suoi discepoli, vedi Colajanni, 1898; citato da Teti,1993, «La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale» manifestolibri, Roma; Petraccone, 2000, p. 163; da Ant. Petrillo, 2016, e altri; aggiungo: la tesi che gli europei al di sotto del 45° parallelo fossero afro-europei fu teorizzata da Madison Grant nel 1916 e ispirò l’Immigration Act del 1924 ossia la prima misura restrittiva/elettiva dell’immigrazione negli States e quindi le misure conseguenti fra le quali le leggi contro il mescolamento delle “razze”].

Il dogma razzista sugli italiani del sud trovò terreno fertile negli Stati Uniti. Come scrive la storica Jennifer Guglielmo, i nuovi arrivati si sono scontrati con ondate di libri, riviste e giornali che «hanno bombardato gli americani con immagini di italiani come razzialmente sospetti». A volte venivano chiusi fuori da scuole, cinema e sindacati o relegati nei banchi delle chiese messi a parte per i neri [si veda l’eccezionale film documentario Pane Amaro di G.F. Norelli: https://www.youtube.com/watch?v=ZCdfgXskmUc&t=191s- che mostra come gli italiani erano i fedeli dello scantinato nella celebre chiesa della Madonna del Carmelo a Brooklyn oggi frequentata da latinoamericani].

Sono stati descritti dalla stampa come membri «swarthy», «dai capelli crespi» di una razza criminale e derisi nelle strade con epiteti come «dago», «guinea» – termini di derisione applicati agli schiavi africani e ai loro discendenti – e ancora altri insulti correntemente razzisti come «negro bianco» e «nigger wop» [vedi «The Religious Boundaries of Inbetween People: Street Feste and the Problem of the Dark-Skinned Other in Italian Harlem, 1920-1990», di Robert Orsi: https://www.jstor.org/stable/2712980?seq=1#page_scan_tab_contents].

Le sanzioni della pelle scura andarono ben oltre il soprannome degradante nel sud dell’apartheid. Gli italiani che erano venuti nel Paese come «bianchi liberi» [vedi T.A. Gugliemo] erano spesso marchiati come neri perché accettavano lavori “neri” nei campi di zucchero della Louisiana o perché sceglievano di vivere tra gli afroamericani [erano costretti]. Ciò li ha resi vulnerabili al linciaggio come migliaia di neri, donne e bambini in tutto il Sud impiccati, sparati, smembrati o bruciati vivi [vedi «Rope and Soap: Lynchings of Italians in the United States», di Patrizia Salvetti, 2017; e Lynching as Racial Terrorism: https://www.nytimes.com/2015/02/11/opinion/lynching-as-racial-terrorism.html]. La festa nazionale in onore dell’italiano Cristoforo Colombo – celebrata il lunedì – è stata centrale nel processo attraverso il quale gli italoamericani sono stati completamente ratificati come bianchi nel XX° secolo. La logica della vacanza era permeata del senso del mito e permise agli italo-americani di scrivere un immagine elogiativa nel registro civico [«Whom We Shall Welcome Italian Americans and Immigration Reform, 1945-1965», di Danielle Battisti].

Pochi che marciano oggi durante la sfilata del Columbus Day raccontano la storia del viaggio di Colombo dall’Europa al Nuovo Mondo, sanno come il presidente Benjamin Harrison ha proclamato la festa durante una celebrazione nazionale del 1892, in memoria del sanguinoso linciaggio di New Orleans che tolse la vita a 11 immigrati italiani. Il proclama faceva parte di un più ampio tentativo di placare l’indignazione degli italoamericani e la rottura diplomatica per gli omicidi che portarono l’Italia e gli Stati Uniti sull’orlo di una guerra.

Gli storici hanno recentemente dimostrato che la risposta disonorevole dell’America a questo barbaro evento è stata in parte condizionata dagli stereotipi razzisti sugli italiani promulgati sui giornali del Nord come The Times. Una sorprendente analisi di Charles Seguin [http://www.charlieseguin.com/], sociologo della Pennsylvania State University, e di Sabrina Nardin, dottoranda all’Università dell’Arizona [https://sociology.arizona.edu/user/sabrina-nardin] mostra che le proteste presentate dal governo italiano hanno ispirato qualcosa che non era riuscito a fondersi attorno al coraggioso editore del giornale afroamericano anti-linciaggio Ida B. Wells – un ampio sforzo anti-linciaggio [https://www.nytimes.com/2018/01/09/opinion/monuments-white-supremacy-tennessee.html].

Un “bruto” nero linciato

I linciaggi degli italiani arrivarono in un momento in cui i giornali del Sud avevano stabilito la cruenta convenzione di pubblicizzare in anticipo i molto più numerosi omicidi pubblici di afroamericani – per attirare grandi folle – e per giustificare gli omicidi etichettando le vittime «bruti», «diavoli», «rapitori», «criminali nati» o «negri fastidiosi» [https://www.nytimes.com/2018/05/05/opinion/sunday/southern-newspapers-justified-lynching.html]. 

Persino nuove organizzazioni di alto livello che affermavano di aborrire la pratica che legittimava il linciaggio usavano stereotipi razzisti sulle sue vittime [https://www.nytimes.com/2018/06/11/opinion/northern-newspapers-lynchings.html].

Come ha recentemente dimostrato Seguin, molti giornali del Nord erano «altrettanto complici» nel giustificare la violenza della folla tanto quanto quelli del Sud degli USA [https://www.nytimes.com/2018/06/11/opinion/northern-newspapers-lynchings.html]. 

Da parte sua, The Times ha fatto un uso ripetuto del titolo «A Brutal Negro Lynched», presumendo la colpa delle vittime e marchiandole come criminali congeniti. I linciaggi di uomini di colore nel sud erano spesso basati su accuse inventate di violenza sessuale. Come ha spiegato la Equal Justice Initiative nel suo rapporto del 2015 sul linciaggio in America [https://lynchinginamerica.eji.org/report/] un’accusa di stupro poteva verificarsi in assenza di una vera vittima e poteva derivare da lievi violazioni del codice sociale come complimentarsi con una donna bianca per il suo aspetto o addirittura imbattersi in lei per strada.

The Times non era di proprietà della famiglia che lo controlla oggi quando ha licenziato Ida B. Wells come una «mulatta calunniosa e cattiva di mente» per aver giustamente descritto le accuse di stupro come «una menzogna sfacciata» che i “sudisti” usavano contro gli uomini neri che avevano rapporti sessuali consensuali con donne bianche.

Tuttavia, come editorialista del Times da quasi 30 anni e studente di storia delle istituzioni: «sono indignata e sconvolta dal trattamento crudemente razzista che i miei predecessori del 19° secolo hanno mostrato per iscritto su afro-americani e immigrati italiani».

Quando Wells portò la sua campagna anti-linciaggio in Inghilterra negli anni 1890, i redattori del Times la rimproverarono per aver rappresentato «bruti neri» all’estero in un editoriale che scherniva quelli che descrivevano «la pratica di arrostire i rapinatori del negro e bruciarne gli occhi con il tizzone ardente». L’editoriale ha calunniato gli afro-americani in generale, riferendosi allo stupro come «un crimine a cui i negri sono particolarmente inclini». Gli editori del Times potrebbero aver presentato obiezioni al linciaggio, ma lo hanno fatto in una retorica saldamente radicata nella supremazia bianca .

Assassini per Natura

Gli immigrati italiani furono accolti in Louisiana dopo la Guerra Civile, quando la classe dei piantatori aveva un disperato bisogno di manodopera a basso costo per sostituire i neri di recente emancipazione, che lasciavano posti di lavoro nei campi per un lavoro più remunerativo.
Questi italiani all’inizio sembravano essere la risposta sia alla carenza di manodopera che alla ricerca sempre più pressante di coloni che avrebbero sostenuto il dominio bianco nell’emergente stato di Jim Crow. La storia d’amore della Louisiana con il lavoro italiano iniziò a peggiorare quando i nuovi immigrati provarono le difficoltà di bassi salari e condizioni di lavoro misere.
I nuovi arrivati avevano scelto anche di vivere insieme nei quartieri italiani, dove parlavano la loro madrelingua, preservavano le usanze italiane e sviluppavano attività di successo che soddisfacevano gli afro-americani, con i quali fraternizzavano e si sposavano [in realtà questo inserimento era determinato dalle stesse costrizioni imposte con le leggi prima citate e dalla generale razzializzazione che li colpiva: la chiusura in gruppi o reticoli di parentela e compaesanato corrisponde alla relegazione sociale -vedi Mobilità umane e questo].

Col tempo, questa vicinanza con i neri avrebbe portato i meridionali bianchi, e i siciliani in particolare, a essere visti come non completamente bianchi e destinati alla persecuzione, incluso il linciaggio che abitualmente colpiva gli afro-americani.

Tuttavia, come ha dimostrato recentemente la storica Jessica Barbata Jackson sulla rivista Louisiana History [2017, «Before the Lynching: Reconsidering the Experience of Italians and Sicilians in Louisiana», 1870s-90s,” Louisiana History: The Journal of the Louisiana Historical Association, Vol. 58, No. 3, 300-338] i nuovi arrivati italiani erano ancora ben visti a New Orleans negli anni 1870, quando gli stereotipi negativi erano veicolati dalla stampa nordica. The Times, ad esempio, li descriveva come banditi e membri delle classi criminali, «miseramente poveri e non qualificati», «affamati e completamente indigenti». Lo stereotipo sulla criminalità innata è chiaramente evidente nella storia del 1874 sugli immigrati italiani in cerca di vaccini riguardante un immigrato «uomo corpulento, il cui aspetto era simile a quello del tradizionale brigante abruzzese».

Una storia del Times nel 1880 descriveva gli immigrati, compresi gli italiani, come «collegati a una catena evolutiva decadente». 

Queste caratterizzazioni raggiunsero un crescendo diffamatorio in un editoriale del 1882 che apparve sotto il titolo «I nostri futuri cittadini». Gli editori scrissero:


«Da quando New York è stata fondata non c’è mai stata una classe così bassa e ignorante tra gli immigrati italiani del sud che si sono riversati qui e che hanno affollato i nostri marciapiedi durante l’anno scorso».

Gli editori riservarono la peggior invettiva per i bambini immigrati italiani, che descrissero come «cenciosi, sporchi, infestati di vermi e assolutamente inadatti da collocare nelle scuole primarie pubbliche tra i bambini decenti della generazione americana».
Il mito razzista secondo cui afro-americani e siciliani erano entrambi criminali innati ispirava una storia del Times del 1887 su una vittima di linciaggio nel Mississippi a cui come nome era stato dato «Dago Joe» – “dago” era un insulto diretto agli immigrati di lingua italiana e spagnola.

La vittima era descritta come una «mezza razza»: «figlio di un padre siciliano e una madre mulatta, e aveva le peggiori caratteristiche di entrambe le razze nel suo aspetto. Era astuto, infido e crudele, ed era considerato nella comunità in cui viveva come un assassino per natura».

Siciliani come “serpenti a sonagli”

La carneficina di New Orleans fu innescata nell’autunno del 1890 quando il famoso capo della polizia della città, David Hennessy, fu assassinato mentre tornava a casa una sera. Hennessy non mancava di nemici. Lo storico John V. Baiamonte Jr. scrive che una volta era stato processato per omicidio in relazione all’uccisione di un professionista rivale. Si dice anche che sia stato coinvolto in una faida tra due uomini d’affari italiani. Sulla base di un testimone chiaramente sospetto che ha affermato di aver sentito il signor Hennessy dire che i “dagoes” gli avevano sparato, la città ha accusato 19 italiani di complicità nell’omicidio del capo.
Che l’evidenza fosse tremendamente debole era evidente dai verdetti che furono rapidamente emessi: dei primi nove dei quali provare la colpevolezza, sei furono assolti; ad altri tre fu concesso l’assenza di prove. I capi della folla che poi li inseguirono pubblicizzarono in anticipo i loro piani, sapendo benissimo che le élite della città – che invidiavano le attività che gli italiani avevano creato o odiavano gli italiani perché fraternizzavano con gli afro-americani – non avrebbero mai cercato giustizia per i morti.

Dopo il linciaggio, un’indagine della grande giuria giudicò lodevoli gli omicidi, trasformando quell’indagine in ciò che la storica Barbara Botein descrive come «forse uno dei più grandi insabbiamenti della storia americana».

Il sangue delle vittime di New Orleans era appena asciugato quando the Times pubblicò una notizia cheerleader – «Il capo Hennessy vendicato: Undici dei suoi assassini italiani linciati da una folla» – in cui si dilettava nei dettagli sanguinosi.

Scriveva che la folla era costituita «principalmente dagli elementi migliori» della società di New Orleans. Il giorno seguente, un editoriale scabro del Times giustificava il linciaggio e disumanizzava i morti, con stereotipi razzisti ormai familiari.
«Questi siciliani furtivi e codardi» scrivevano i redattori «discendenti di banditi e assassini, che hanno trasportato in questo Paese le passioni dei senza legge, le pratiche spietate … sono per noi parassiti senza mitigazioni. I nostri serpenti a sonagli sono cittadini buoni come loro. I nostri assassini sono uomini di sentimento e nobiltà rispetto a loro». Gli editorialisti concludevano che sarebbe stato difficile trovare «un individuo che confessasse che privatamente deplora molto il linciaggio».

Il presidente Harrison avrebbe ignorato la carneficina di New Orleans se le vittime fossero state nere. Ma il governo italiano lo rese impossibile. Ruppe le relazioni diplomatiche e chiese un’indennità che l’amministrazione Harrison pagò. Harrison fece persino appello al Congresso nel suo discorso sullo stato dell’Unione del 1891 per proteggere i cittadini stranieri – ma non i neri americani – dalla violenza della folla.

La proclamazione del Columbus Day da parte di Harrison nel 1892 aprì le porte agli italoamericani per scrivere essi stessi nella storia delle origini americane, in un modo che accumula mito su mito. Come mostra la storica Danielle Battisti in «Whom We Shall Welcome» (“A chi diamo il benvenuto”) hanno riscritto la storia dichiarando Columbus come «il primo immigrato» – anche se non ha mai messo piede in Nord America e mai fu immigrato da nessuna parte (tranne forse in Spagna) e anche se gli Stati Uniti non esistevano come nazione durante il suo viaggio del XV secolo. La mitologizzazione, condotta nel corso di molti decenni, garantì agli italo-americani «un ruolo formativo nella narrativa della costruzione della nazione». Inoltre legò strettamente gli italo-americani all’asserzione paternalistica, ancora oggi sentita, che Colombo “scoprì” un continente che era già abitata da nativi americani.

Ma alla fine del XIX secolo, il vero mito di Colombo doveva ancora arrivare. Il linciaggio di New Orleans consolidò una visione diffamatoria degli italiani in generale, e in particolare dei siciliani, come criminali irredimibili che rappresentavano un pericolo per la nazione. L’influente rappresentante razzista anti-immigrazione Henry Cabot Lodge del Massachusetts che entrò nel Senato degli Stati Uniti si appropriò rapidamente dell’evento. Sosteneva che la mancanza di fiducia nelle giurie, non la violenza della folla, era stato il vero problema a New Orleans. «L’illegalità e il linciaggio sono cose malvagie» scrisse «ma una credenza popolare secondo cui non ci si può fidare delle giurie è ancora peggio». A parte i fatti, sosteneva Lodge, le credenze sugli immigrati erano di per sé sufficienti a giustificare barriere più elevate all’immigrazione. Il Congresso ratificò questa nozione durante gli anni ’20, limitando l’immigrazione italiana per motivi razziali, anche se gli italiani erano legalmente bianchi, con tutti i diritti dei bianchi.

Gli italoamericani che lavorarono nella campagna che rovesciò le restrizioni all’immigrazione razzista nel 1965 usarono le fiction romantiche costruite intorno a Colombo a vantaggio politico. Ciò dimostra ancora una volta come le categorie razziali che le persone considerano erroneamente come questioni biologiche derivino dalla creazione di miti altamente politicizzati.

NB: questo aspetto della storia del razzismo conferma che infine i colonialisti bianchi che hanno fatto degli Stati Uniti la prima potenza economica, politica e militare non smettendo mai di sfruttare gli immigrati (e oggi i latino-americani) non hanno MAI concesso effettiva parità ai NERI e ai NATIVI che ancora oggi, insieme ai latinos sono spesso oggetto di assassinii da parte della polizia

Sull’emigrazione degli italiani all’estero e anche negli Stati Uniti,

si veda il sito https://www.asei.eu/it/

e in particolare:

– «Emigranti italiani a Ellis Island tra fiction e storia» di Valentina Bertuzzihttps://www.asei.eu/it/2014/09/emigranti-italiani-a-ellis-island-tra-fiction-e-storia/

– «Storia dell’emigrazione italiana», 2017, a cura di P. BevilacquaDe Clementi, A. ed E. Franzina

– «L’immigrazione negli Stati Uniti», 2008, di Stefano Luconi (Autore), Matteo Pretelli

– Italoamericani. «L’opera di Rudolph J. Vecoli (1927-2008)», a cura di Emilio Franzina,Vincenzo Lombardi e Matteo Sanfilippo: 

https://www.asei.eu/it/2019/10/come_gli_italiani_diventarono_bianchi/

traduzione dell’articolo “How Italians Became ‘White’” pubblicato dal NYT qui

note e commenti come NT

traduzione di Salvatore Palidda

LE FOTO – scelte dalla “bottega” – sono riprese da Wikipedia. Nell’ordine: emigrati italiani impiegati nella costruzione di una ferrovia negli Stati Uniti (1918) ; il linciaggio contro italiani a New Orleans, nel 1891 dopo l’assassinio dell’agente di polizia David Hennessy; Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco in manette; Mulberry Street, Little Italy a Manhattan, 1900 circa; parata del Columbus Day a Boston; Il porto di Ellis Island dove passarono 12 milioni di migranti (prima della sua apertura altri 8 milioni transitarono per il Castle Garden Immigration Depot di Manhattan).

Questo articolo è stato pubblicato qui

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