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Colloqui afghani, imparare dagli errori o perseverare

Uno dei motivi a sostegno dell’ottimismo con cui il gran cerimoniere dei colloqui di pace fra Stati Uniti e taliban, Mr Khalizad, guarda al bicchiere mezzo pieno è che “si impara dagli errori commessi”. La frase pronunciata da una delle voci ufficiali dei mediatori a confronto, Nazar Mutmain cresciuto vicino al mullah Omar, è portata ad esempio della buona volontà con cui le parti si confrontano. 

Abbiamo già ricordato i punti fermi e irrinunciabili di ciascun fronte: gli americani chiedono e vogliono che i talebani non forniscano basi al jihadismo dell’Isis e di Qaeda. Imparando dagli errori commessi i turbanti affermano che saranno accontentati. Poi chiedono ai nemici che potranno diventare amici di ritirarsi dall’intero territorio afghano e Washington fa sapere d’essere disposto a portar via entro aprile settemila marines e successivamente altrettanti, così da mostrare che non ci saranno più occupanti stranieri. L’ordine varrebbe per tutti gli alleati Nato, dunque anche per i circa novecento soldati italiani presenti prevalentemente nella base di Herat. Contractors esclusi.

Già le basi. Finora nei dialoghi nulla trapela sulla sorte delle tredici basi aeree che gli States hanno disseminato nel Paese. Dovrebbero continuare a essere attive con tanto di personale di servizio che sarebbe giustificato proprio dal contrasto al terrorismo del Daesh, che non deve trovare sostegno fra gli studenti coranici. Per ora si sa solo che un tot di agenti della Cia avranno il permesso di restare in loco a svolgere la propria missione di “controllo e supervisione”. In cambio i talebani sarebbero sdoganati per entrare nel futuro governo d’unità nazionale senza rinunciare al loro credo sull’applicazione della Shari’a. All’agitazione d’una parte della società civile e femminile, gli officianti dei colloqui hanno contrapposto altra società civile afghana che s’è seduta attorno al tavolo predisposto a Mosca dal Cremlino al seguito dell’ex presidente Karzai. Costoro accetteranno gli orientamenti fondamentalisti dei turbanti, anche perché negli anni precedenti, con Karzai e con Ghani, certe tendenze avevano sempre trovato udienza in quei governi. Dunque nulla di nuovo. Eppure con l’intensificarsi dei dialoghi di pace aumentano le azioni di guerra.

Anche questa può essere una tattica antica: ciascuno vuole firmare accordi che, magari non rispetterà, da posizioni di forza. Notizie e dati diffusi dal Pentagono mostrano una crescita di attacchi aerei e d’artiglieria nell’ultimo anno. Le cifre ne contano 7.000, nel 2014 erano scesi a 2.365. Fra l’altro dallo scorso settembre a oggi ne sono stati contati 2.100. Poi, tanto per dire, solo in questo fine settimana in alcune zone ormai a totale giurisdizione talebana (Kandahar, Helmand, Nangahar) sono stati colpite postazioni dei turbanti e uccisi una decina di loro comandanti, seppure di basso rango. I fatti dimostrano che pur trattando e dicendo di voler colpire l’Isis, il generale Miller, attuale responsabile militare statunitense nel quadrante afghano, rivolge il mirino anche sui nemici con cui si dialoga. Quest’ultimi non sono da meno. Dopo un parziale e mai totale periodo di tregua, coinciso peraltro con l’inverno, anche la guerriglia ha ripreso azioni contro stazioni di polizia e check point controllati dall’Afghan Security Forces. Ultimamente nel Wardak è stata assaltata una base dove venivano addestrati agenti della locale Intelligence. Un monito. Come a dire: nell’Afghanistan prossimo venturo non avrete bisogno di certe spie. Dovrete contare su di noi. 

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