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Che succede in Arabia Saudita?

Dopo la morte di re Abd Allah, il 23 gennaio scorso, l’Arabia Saudita sembra entrata in una fase di fibrillazione. Le ultime notizie sono di pochi giorni fa: il re Salman ha dichiarato eredi al trono in successione il ministro dell’Interno Mohamed bin Najaef (figlio di un fratello suo predecessore) e il proprio figlio Mohammed bin Salman (”saltando” il suo più anziano fratello Muqrin), contestualmente, ha insediandolo anche come ministro della Difesa ed ha esautorato Saud Al Feisal dal ministero degli esteri, che reggeva dal 1975 e che era uno storico alleato degli Usa, sostituito con Adel al Juber, un tecnico, non appartenente alla casa regnante e già ambasciatore a Washington.

Per capire a pieno la portata di questi mutamenti, occorre sapere che l’Arabia Saudita è una monarchia assoluta (governata da un’unica famiglia, il clan Saud, dalla quale deriva il nome del Paese) che prevede una legge di successione di tipo orizzontale da fratello a fratello in ordine di anzianità e, infatti, sinora i re sauditi sono stati tutti figli di Abd al-Aziz (ibn Saud) che è stato il fondatore del regno nel 1932.

Si può passare alla generazione successiva, e sempre in ordine di anzianità, solo quando l’ultimo appartenente alla generazione precedente sia defunto. Per cui la decisione di Salman, non solo salta il fratello Muqrin (che sembra sia consenziente… sembra) ma elimina dalla linea di successione alcune centinaia di figli di altri fratelli (si tenga presente il costume poligamico), che restano comunque membri della corte. E non sappiamo quanti di essi siano consenzienti di fronte a questo che si presenta come un vero e proprio colpo di stato dinastico.

Anche la contemporanea sostituzione dei ministri degli Esteri e della Difesa e la nomina di un tecnico non appartenente alla famiglia reale, sono atti per nulla usuali a Ryad che fanno pensare a misure straordinarie per affrontare emergenze particolari. E, infatti, l’Arabia Saudita deve fare i conti con almeno tre emergenze.

In primo luogo il secco deterioramento dei rapporti con gli Usa per via del loro accordo con gli iraniani. Si sa che l’Iran sciita è uno dei principali nemici (se non il principale) dell’Arabia sunnita e wahabita. Anche perché gli iraniani hanno sempre sostenuto che la famiglia Saud non fosse degna di custodire i luoghi santi (Mecca e Medina) e, più ancora, di gestire le rendite assicurate dai pellegrinaggi e dalle donazioni dei fedeli che rappresentano la seconda fonte di introito dell’Arabia Saudita. Gli sciiti condannano i Saud per aver consentito (dal 1979) la presenza di soldati “crociati” (gli americani) sul terreno dei luoghi santi. La stessa cosa pensano i fondamentalisti di vario tipo, a cominciare da Al Quaeda, ed anche molti altri sunniti non wahabiti, ciascuno convinto che quelle rendite sarebbero molto meglio amministrate nelle proprie mani.

Ryad teme che l’Iran possa darsi una bomba nucleare che, anche se non usata, potrebbe incoraggiare l’insurrezione degli sciiti sparsi nel mondo arabo, a cominciare dal vicino Barhein. Di conseguenza, non perdonano agli americani di averli lasciati soli davanti a questo rischio. E, parallelamente, aprono un canale di comunicazione con gli israeliani, che saranno infedeli, ma in fondo simpatici per via delle loro posizioni sull’Iran (si sa da anni che Ryad ha concesso una base di appoggio a due sommergibili nucleari israeliani proprio di fronte alle coste iraniane).

La seconda emergenza è rappresentata dalla guerra yemenita. Già dal 1962, lo Yemen, con la sua guerra fra quello settentrionale e quello meridionale, fu uno stato campo di battaglia fra sauditi ed egiziani. Ora, dopo la deposizione del presidente Saleh (cui restano fedeli alcuni reparti) è iniziata una guerra civile, nella quale i Sauditi sono intervenuti sia contro i ribelli Houti (che sono sciiti), ma, mal gliene è incolto, perché gli Houti sono risciti a conquistare diverse posizioni strategiche al confine meridionale saudita, ed avrebbero facilmente occupato quelle provincie se non fossero intervenuti dei reparti dell’alleato Pakistan.

Il problema è che l’Arabia Saudita, che è il primo acquirente di armi al Mondo, non ha un vero e proprio suo esercito: le forze armate sono composte da circa 150.000 uomini, per oltre il 90% mercenari stranieri che, al solito, non sono particolarmente affidabili (e infatti, si sono subito dileguati di fronte all’offensiva Houti). Unica forza affidabile è la Guardia Nazionale Saudita, composta da 10.000 uomini molto ben armati che sono stati subito inviati contro gli Houti. Ma, per fare questo, sono stati sguarniti i gli impianti petroliferi che, pertanto restano esposti ad incursioni di terzi. Risultato: l’operazione Restor Hope in Yemen, condotta a fianco degli alleati egiziani (che, però non sembrano darsi molto da fare) sta vacillando e la “Nato araba” sorta proprio in funzione della crisi yemenita, sta sfumando molto rapidamente. Urge la riorganizzazione delle forze armate saudite e la nomina di Mohammed bin Salman alla Difesa servirebbe proprio a questo, date le grandi capacità strategiche che gli sarebbero attribuite, ma che, ad un occhio esterno, sfuggono, considerando che proprio lui è stato l’ideologo di Restor Hope ed, in qualche modo, chi ne ha seguito l’andamento, con i brillanti risultati di cui si è detto.

La terza crisi è quella che si è aperta con la nascita del Califfato di Al Baghdadi. Contrariamente a quello che si pensa, il governo saudita, in quanto tale, non ha mai sostenuto le milizie di Al Baghdadi nella guerra civile siriana, quanto piuttosto i salafiti della Federazione islamica a Jabhat al Islam che si è spesso scontrata con l’Isis. Peraltro, giorni addietro, sono stati arrestati 93 jihadisti che, sembra, stessero preparando un attentato all’ambasciata americana. Però è dai potentati economici dell’Arabia Saudita (compresi non pochi membri della famiglia reale) ed in particolare dai gruppi religiosi che controllano le Fondazioni islamiche che gestiscono la zakat (l’autotassazione coranica), che arrivano gli aiuti all’Isis e non da oggi, e il governo saudita lascia fare, senza alcuna azione di contrasto. D’altro canto, l’ideologia wahabita che ispira i sauditi è la stessa di Al Quaeda e dell’Isis. E la stessa ambiguità ha caratterizzato da un quindicennio i rapporti con Al Quaeda.

Un intrico molto fitto, come si vede, ed una situazione in cui la crisi può precipitare in ogni momento sia sotto forma di congiura palatina (molti degli esclusi dalla successione potrebbero non aver gradito), sia sotto forma di sconfitta militare sul fianco yemenita, sia sotto forma di protesta interna, sia infine, sotto forma, di ostilità americana che, oltre che per la questione iraniana, potrebbe essere avversaria di Ryad per la questione dei prezzi petroliferi e l’Arabia Saudita possiede il 26% delle riserve petrolifere del mondo.

Difficile dire cosa potrebbe accadere a breve, molto facile prevedere che, comunque vada, si stia aprendo un nuovo fronte della crisi internazionale, con effetti potenzialmente devastanti sull’intera economia mondiale.

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