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Charlie Hebdo: un anno dopo la strage

Le scorse vacanze natalizie terminarono con la strage dei vignettisti. Eravamo appena rientrati al lavoro, quando, il 7 gennaio, apprendemmo dell'uccisione dei redattori di Charlie Hebdo. Fu subito chiaro che era stata colpita la libertà di espressione e che si era trattato di un infame attacco al valore fondante delle democrazie occidentali. Molti finsero di non capire il significato di quella vile esecuzione. Il vescovo di Roma arrivò persino a colpevolizzare le vittime (non ancora sepolte) dell'attentato e a far credere che, senza le ironie degli irriverenti disegnatori uccisi, la strage non avrebbe avuto luogo. Da molti venne data una spiegazione semplicistica e rassicurante dell'accaduto, fragorosamente smentita dalle stragi del 13 novembre scorso.

Meno di due mesi fa, Parigi è stata nuovamente colpita. Sono stati colpiti luoghi di divertimento e di svago e sono stati colpiti di venerdì, il giorno della settimana consacrato ad Allah. Anche il significato di questo secondo massacro è fin troppo chiaro: un gruppo di fanatici islamisti ha voluto punire, nel giorno di Allah, uomini e donne dediti a condotte di vita disapprovate dal Corano.

Gli stragisti sono, in maggioranza, giovani disadattati nati in Europa e irretiti dalla propaganda islamista, che li illude prospettando loro un mondo retto dalla giustizia e dalla purezza coraniche, diverso dal “corrotto” mondo occidentale in cui sono nati e cresciuti.

L'organizzazione responsabile delle stragi di Parigi è Daesh, una setta di sunniti estremisti guidata da Abu Bakr al-Baghdadi, autoproclamato vicario (califfo) di Maometto e profondo conoscitore delle scritture coraniche. Daesh persegue la creazione di un grande califfato, nei cui confini dovrebbero rientrare l'Africa centro-settentrionale, la Spagna, i Balcani, il Medio Oriente, il Caucaso e l'Asia occidentale.

Osservando sulle mappe i territori rivendicati dagli stragisti di Daesh, si nota che vanno ben oltre le terre abitate dagli Arabi. Il panarabismo sembra stare stretto a questi fanatici estremisti. Essi si pongono obiettivi territoriali inversamente proporzionali alla loro ridotta forza militare, uccidono indiscriminatamente civili disarmati e attaccano popoli (francese e russo) tradizionalmente filo-arabi. Velleitarismo, violenza indiscriminata e stupidità politica sono le cifre distintive di questo movimento estremista che pretende di superare il vecchio panarabismo.

Il primo serio e parziale tentativo di unificazione politica degli Arabi fu fatto, un secolo fa, dallo sceriffo della Mecca, al-Husayn, cui il delegato britannico Henry McMahon promise la creazione di uno Stato siro-arabico-mesopotamico, in cambio dell'impegno militare arabo contro l'Impero Ottomano. Come è noto, i Britannici non rispettarono i patti e optarono per la frammentazione politica del Medio Oriente e per la nascita dello Stato d'Israele.

Il secondo tentativo di unificazione politica degli Arabi fu fatto da Nasser che, negli anni '50 e '60, dapprima sfidò con successo il declinante colonialismo anglo-francese, ma fu poi sconfitto dagli Israeliani nel 1967. Dopo di lui, in tanti si sono solo atteggiati a capi della Nazione Araba, senza avere la sua autorevolezza e il suo spessore politico.

Tramontati gli scimmiottatori di Nasser, i fondamentalisti musulmani hanno trasformato il panarabismo in un panislamismo tanto velleitario quanto violento e feroce. Le stragi di Parigi sono il frutto più maturo e più avvelenato dell'ideologia panislamista.

L'impossibilità storica di realizzare il loro disegno geopolitico spinge i fanatici estremisti di Daesh ad accanirsi contro l'indifesa popolazione civile. Di fronte a tanta ferocia, la risposta militare è sicuramente legittima e necessaria. L’eradicazione militare dell’illusione panislamista serve all’Occidente per difendersi, ma è di grande aiuto alle forze laico-democratiche presenti nel mondo arabo.

La reazione militare della Francia, però, non può essere equivalente alla reazione militare degli Americani dopo l’abbattimento delle Torri Gemelle. L’invasione americana dell’Afghanistan iniziò 26 giorni dopo gli spettacolari attentati dell’11 settembre 2001. A due mesi dalle stragi del 13 novembre 2015, la Siria orientale (in cui si concentrano le basi operative di Daesh) non è stata invasa, perché la potenza militare francese non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella americana. Solo un esercito europeo avrebbe potuto mettere in campo una reazione militare analoga a quella attuata dagli Americani nel 2001.

La guerra al fanatismo islamista, perciò, è stata appaltata ai peshmerga curdi, all’esercito iracheno, all’esercito siriano e ai volontari siriani che si oppongono al regime di Bashar al-Assad. Gli stati occidentali stanno solo dando copertura aerea e supporto logistico alle eterogenee formazioni impegnate a combattere i fanatici di Daesh. L’unico significativo successo sinora ottenuto è la riconquista della città irachena di Ramadi. Ci vorranno mesi prima della liberazione di Raqqa e Mosul, le “capitali” del sedicente stato islamico. La campagna militare è rallentata anche dal doppio gioco della Turchia, per la quale Daesh è un prezioso alleato contro il temutissimo nazionalismo curdo.

La reazione militare deve, inoltre, essere affiancata da un’azione politico-diplomatica orientata ad agevolare la crescita delle forze laico-democratiche nel mondo arabo. La firma di un trattato di pace tra Israeliani e Palestinesi gioverebbe parecchio, perché farebbe crollare il pilastro della propaganda anti-occidentale. Purtroppo, l'attuale Governo israeliano fa di tutto per sabotare un’intesa con l’Autorità nazionale palestinese.

Volendo trarre una parziale conclusione, si può dire che, a un anno dalla strage dei vignettisti, le opinioni pubbliche e i governi occidentali hanno solo iniziato a capire la natura e la pericolosità dei suoi autori, ma non hanno ancora messo in campo, per i motivi sopra elencati, una reazione coordinata e pienamente efficace contro il terrorismo islamista.

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