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Catalogna | La Independencia Català

Il dato è tratto. Il referendum catalano si è tenuto.

Così un referendum snobbato dagli stessi catalani già tre anni fa, dalle motivazioni piuttosto ambigue, in cui il cui colore caldo delle bandiere giallo-rosse nasconde a malapena la freddezza di un tornaconto economico egoista, alla fine è arrivato.

Nonostante la cattiveria insensata della polizia spagnola più di 2 milioni e 260mila persone hanno votato e poco più di 2 milioni hanno detto di "sì" all’indipendenza. Circa 700mila persone non hanno potuto votare, secondo le dichiarazioni ufficiali, per la chiusura forzata dei seggi.

Secondo queste notizie i votanti sono meno della metà degli aventi diritto al voto (5,3 milioni). Grossomodo la stessa percentuale che andò ai due partiti indipendentisti nel 2015 che, insieme, raccolsero quasi il 48% dei voti. Risultato migliore, ma non esaltante, del 2014 quando, stesso quesito referendario, alle urne si recò meno del 36% degli elettori. Forse la paura ha giocato un suo ruolo, ma tant'è. Questi sono i risultati.

Nonostante ciò la vittoria politica degli indipendentisti - la cui composizione politica è trasversale, da destra fino alla sinistra anticapitalista - appare evidente.

Perché se due milioni di persone e più vanno a votare in un clima da paura è già una vittoria. Perché vedere civili innocui e pacifici di ogni età picchiati da poliziotti in assetto da guerriglia urbana ha suscitato per le vittime simpatia e solidarietà, immediatamente tradotte in termini politici. Perché lo Stato, attraverso le parole del governo centrale, aveva esplicitamente detto che il referendum sarebbe stato impedito. E invece è stato fatto. Fine della storia.

Ora la domanda è ovvia: non si sa che ci faranno i catalani con un referendum illegale dal punto di vista costituzionale (e la costituzione spagnola del 1978 che definisce lo stato "indivisibile" fu approvata con il voto dell’80% dei catalani stessi), illegittimo anche dal punto di vista dell’ordinamento giuridico del parlamento locale: una legge stabilisce che per indire un referendum è necessaria la maggioranza dei 2/3 dei parlamentari, mentre questo referendum è stato indetto solo da 72 deputati su 135; e in cui, in ultima battuta, la partecipazione al voto non ha nemmeno raggiunto il traguardo fortemente simbolico (non c'è quorum) della maggioranza assoluta degli aventi diritto.

Ci faranno una cosa sola e sarà la dichiarazione unilaterale di indipendenza. Perché nessuno ormai può più tornare indietro.

E non potrà tornare indietro nemmeno il governo centrale che deve rispondere alle altre decine di milioni di spagnoli che sono stati a guardare mentre la costituzione del loro paese diventava carta straccia. Il governo centrale dovrà rispondere attraverso un governo che, dopo le violenze e il pessimo risultato conseguito, potrebbe non essere più guidato da Mariano Rajoy.

Dovrà rispondere o accettando di dimostrare agli spagnoli, molti dei quali fortemente animati a loro volta da acceso spirito indipendentista (in primis i baschi), che possono seguire la via catalana alla dissoluzione dello Stato nazionale e mandare tutto a quel paese.

Oppure dimostrando che i catalani non vanno proprio da nessuna parte, ad esempio invocando l’articolo 155 della costituzione che autorizza il governo centrale a sospendere l’autonomia regionale in casi di estrema necessità.

Di punto in bianco le istituzioni catalane non avrebbero più un briciolo di potere, che passerebbe ipso facto nelle mani centraliste. Appoggiate, per farsi rispettare e ubbidire, da uno spiegamento di forze di tutto rispetto.

E la questione si avviterebbe in una spirale pericolosamente balcanizzante.

L’unica strada per una soluzione possibile - ma del tutto utopistica - sarebbe un immediato intervento europeo e l’apertura di una trattativa che porterebbe subito il nuovo stato catalano in Europa con il beneplacito della Spagna stessa, diventata comprensiva e dialogante, menomata, ma ancora legata al paese secessionista dal collante offerto da un tessuto connettivo sociale, economico e politico ampio e democratico, del quale è parte fondamentale.

Cioè in presenza di un rilancio immediato di quel processo aperto e solidaristico di collaborazione sovranazionale che costituiva in origine il progetto europeo.

Processo che le spinte nazionalistiche tentano da sempre di ostacolare sotto lo sguardo molto compiaciuto di Putin di qua e di Trump di là (che non sarebbe poi così strano indicare come i fruitori - e chissà che altro - di tanta gradita disgregazione).

Sarebbe la via maestra per il rilancio di quell'Unione politica federale che latita da troppo tempo e che costituisce oggi l'unico baluardo alla frantumazione dissociativa del continente in un incontrollabile coacervo di microregioni, dagli interessi campanilistici contrapposti e conflittuali, in mano a scellerati politicanti dai mille dialetti.

Purtroppo, l’ho premesso, è un’utopia.

Anche se l'Europa si svegliasse dal suo torpore e qualcuno nei felpati corridoi di Bruxelles decidesse che, dopotutto, la questione dei microsovranismi è tema di interesse europeo, la Spagna probabilmente metterebbe il veto. E l’Europa, comunque, è ben lontana dall’essere quello che si sperava diventasse.

La questione quindi, con tutta la simpatia per i catalani e le catalane di ogni età visti nei tanti video in questa domenica uno-di-ottobre, potrà prendere facilmente una brutta piega.

Poi non sarà facile fermare la deriva disgregatrice che questo referendum ha innescato. In piazza Catalunya sventolava orgogliosa, ça va sans dire, una grande bandiera con il Leone di San Marco.

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