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 Home page > Tribuna Libera > Carcere: storia del trasferimento di un ergastolano

Carcere: storia del trasferimento di un ergastolano

Non c’è niente da fare: ogni volta che leggo Damiano Aliprandi su “Il Dubbio” mi sento di nuovo in carcere. Il suo ultimo articolo sulla “girandola dei detenuti” mi ha fatto ricordare uno dei miei tanti trasferimenti:

In ventiquattro anni di prigione ininterrotti, ho subito molti trasferimenti per punizione perché nelle varie carceri in cui di volta in volta andavo a finire reclamavo i miei diritti di essere umano. E tentavo di far conoscere l’inferno che gli uomini hanno creato e che mal governano scrivendo al di là del muro di cinta. Mi ricordo di quella volta, tanti anni fa, quando dal carcere di Massima Sicurezza di Voghera mi trasferirono nel carcere di Massima Sicurezza di Sulmona.
 
Quella notte mi ero addormentato tardi.
 
E dormivo come un ghiro.
 
Avevo fatto le ore piccole
 
E stavo sognando il paradiso degli ergastolani.
 
Mi trovavo in un luogo senza sbarre, cancelli e blindati.
 
E invece che dalle guardie in divisa ero circondato da tanti alberi e fiori.
 
Poi all’improvviso sentii dei rumori metallici.
 
Aprii gli occhi.
 
E mi venne un colpo perché vidi la mia cella circondata da guardie vestite di blu.
 
Notai subito che avevano facce sodisfatte.
 
E denti bianchi e aguzzi.
 
Sembravano tanti vampiri invitati ad un banchetto di sangue.
 
Ebbi subito timore che fossero entrati in cella per darmi una scarica di calci e pugni perché qualche giorno prima mi ero preso a parole con il comandante.
 
 
 
Dopo qualche istante si svegliò anche il mio cuore.
 
- Musumeci …
 
E quel fifone ebbe subito paura.
 
- È in partenza.
 
Chiesi subito osa stava accadendo.
 
- Sveglia.
 
Ordinai di riaddormentarsi.
 
- Ha finito di scassarci la minchia qui a Voghera.
 
E di lasciar fare a me.
 
- Si sbrighi.
 
Gli consigliai anche di farsi i cazzi suoi, che quello che stava accadendo non erano cose di cuore.
 
- E non perda tempo.
 
E non lo riguardavano.
 
- Ha solo cinque minuti di tempo per prepararsi.
 
Avrei affrontato quel problema da solo.
 
 - Può portare con sé solo cinque chili di indumenti.
 
Alla mia maniera.
 
- Il resto glielo manderemo in seguito nel carcere dove va.
 
Come al solito
 
- Forza …
 
E con il sorriso sulle labbra.
 
- Si alzi …
 
Quel vigliacco del mio cuore mi diede subito retta.
 
- Non ci faccia perdere la pazienza.
 
E non se lo fece ripetere due volte.
 
- Un minuto è già passato…
 
Si riaddormentò subito come un sasso.
 
- Gliene rimangono quattro.
 
E come al solito mi lasciò solo contro tutto e tutti.
 
 
 
Feci il duro.
 
- Un attimo.
 
Chiusi gli occhi qualche istante.
 
- Cos’è tutta questa furia?
 
Poi li riaprii.
 
- Calma.
 
Trassi un respiro.
 
- Datemi il tempo di svegliarmi.
 
Poi mi alzai lentamente per farli incazzare.
 
- E di prepararmi la roba.
 
Feci lo spavaldo ma mi giravano le palle.
 
 
 
Trassi un paio di respiri profondi.
 
Mi raddrizzai di scatto.
 
E mi misi a piedi uniti con le braccia lungo i fianchi per sfidarli.
 
Poi lasciai perdere.
 
Feci un fugace sorriso ironico.
 
Probabilmente perché avevo già subito troppi trasferimenti per spaventarmi.
 
Mi ricordai che una volta mi aveva fatto viaggiare persino con un aereo militare.
 
E un paio di volte, quando ero detenuto all’Asinara, anche in elicottero.
 
Alzai le mani sopra la testa.
 
Ero in mutande.
 
Mi piace dormire senza pigiama e maglietta.
 
Una guardia controllò che non avessi nulla sotto le ascelle.
 
E per ultimo mi fecero abbassare le mutande.
 
Poi mi perquisirono la tuta e le scarpe che avevo scelto d’indossare per il viaggio.
 
Decisi d’indossare un maglione pesante perché eravamo in pieno inverno.
 
E dalla finestra aperta del bagno tirava un’aria fredda che sapeva di neve.
 
Iniziai a mettere nel sacco di tela le cose più importanti da portare con me.
 
Staccai con tenerezza le foto dei miei due figli dal muro.
 
E i visi felici, pieni di speranza e futuro, dei miei bambini mi fecero tenerezza.
 
Evitai di guardarli a lungo perché sicuramente mia figlia mi avrebbe rimproverato per questo nuovo trasferimento.
 
Ogni volta che mi sballavano concludevano che era colpa mia perché avevo fatto casino.
 
Nel frattempo lanciai uno sguardo tra le sbarre.
 
Era ancora buio pesto.
 
E notai che l’Assassino dei Sogni dormiva tranquillo.
 
Beato lui.
 
 
 
Il mio cuore iniziò a consigliarmi di darmi una mossa.
 
- Sbrigati…
 
Io però mi presi tutto il tempo che occorreva.
 
- Non li provocare.
 
Non un minuto in più né in meno.
 
- Non li far incazzare.
 
Ero abbastanza sicuro che le guardie non mi avrebbero picchiato sia per il viaggio da affrontare sia perché di solito le prendi nel nuovo carcere dove arrivi.
 
- Stai attento …
 
Preferii comunque non tirare troppo la corda.
 
- Ti stanno già guardando male.
 
Non tanto per me ma per il mio cuore, che ci rimane male quando le guardie mi massacrano di botte.
 
- Per una volta dammi retta.
 
Un anno prima, nell’isola del carcere dell’Asinara, ne avevo prese così tante che il mio cuore me lo rinfacciava ancora.
 
 
 
Attraversai il corridoio con lo zaino sulle spalle.
 
Ero stranamente calmo.
 
E con il cuore disilluso.
 
Avevo un brigadiere davanti.
 
Due guardie ai miei fianchi.
 
E tre alle spalle.
 
Sentivo il loro respiro pesante sul collo.
 
E l’eco dei loro passi nelle orecchie.
 
Non potei salutare nessuno dei miei compagni.
 
Avevano ancora tutti i blindati chiusi.
 
E le guardie avevano serrato anche gli spioncini per impedirmi di scambiare un cenno di saluto con chiunque.
 
 
 
Mi portarono all’Ufficio Matricola.
 
Mi fecero firmare delle scartoffie.
 
Poi mi chiusero nella cella liscia.
 
La chiamano così perché non c’è dentro nulla.
 
E di solito le guardie la usano per massacrare i detenuti.
 
C’era odore di chiuso, ma anche qualche cos’altro.
 
Qualcosa di familiare.
 
Chiusi gli occhi.
 
E sentii meglio il puzzo di quella cella.
 
Era l’odore di sofferenza che conoscevo molto bene.
 
Andai a mettermi in un angolo in fondo.
 
In carcere non si sa mai cosa può accadere.
 
Ed è meglio sempre avere le spalle al muro.
 
Nell’attesa che arrivasse la scorta mi accesi una sigaretta.
 
E mi misi ad ascoltare le solite lamentele del mio cuore.
 
In quel momento avrei dato qualsiasi cosa per bere un caffè caldo.
 
Per gustarmi meglio la sigaretta mi sforzai di non pensare a niente.
 
Alzai la testa.
 
E mi misi a fissare il fumo della sigaretta salire al soffitto.
 
All’improvviso sentii l’inconfondibile sbatacchiare delle manette.
 
E i rumori dei passi degli anfibi delle guardie.
 
Spensi la sigaretta.
 
E non mi mossi fin quando non vidi il cancello aprirsi.
 
 
 
Si affacciò il caposcorta.
 
- Musumeci…
 
Mi fissò dritto negli occhi. 
 
- Venga.
 
Mi parve di intravedere un sorriso cattivo.
 
- Esca.
 
Aveva la voce da cane arrabbiato.
 
- Si sbrighi.
 
Poi lo vidi arrotolare una tavoletta di gomma americana.
 
- Siamo in ritardo.
 
E ficcarsela in bocca.
 
- E abbiamo tanta strada da fare.
 
Scrollai le spalle.
 
- Se deve andare a pisciare lo faccia adesso perché non faremo fermate.
 
Pensai che non sarebbe stato un bel viaggio.
 
 
 
Prima di arrivare al blindato c’era da fare un piccolo tratto a cielo aperto.
 
Mi accorsi che scendeva una pioggia leggera, quasi non bagnava.
 
E invece avrei dato qualsiasi cosa perché aumentasse per potermi inzuppare di pioggia e sentirmi meno prigioniero.
 
Arrivai al blindato.
 
Mi fecero salire.
 
E mi chiusero nella celletta interna senza togliermi neppure le manette.
 
Trassi un respiro profondo.
 
Ero indeciso se pensare a calmarmi o cercare di pensare a qualcosa per incazzarmi.
 
Alla fine decisi di prenderla con il sorriso nelle labbra.
 
E mi sedetti rassegnato perché non potevo fare altro.
 
 
 
Arrivai nel carcere di Sulmona distrutto dalla stanchezza, dalla fame e dalla sete.
 
E mi stavo anche pisciando addosso.
 
Erano ore che la tenevo.
 
Mi dolevano tutte le ossa.
 
E avevo i polsi arrossate dalle manette.
 
In particolare quello di destra sanguinava.
 
Quello che mi preoccupava però ora era l’accoglienza che mi avrebbero fatto.
 
E non mi sbagliavo.
 
Mi sforzai d’ignorare la pura del mio cuore, ma sapevo che quando vieni sballato da un carcere, in quello dove arrivi le prendi di santa ragione.
 
Dopo il passaggio obbligato nell’Ufficio Matricola e quello in magazzino le guardie mi accompagnarono alle celle di punizione.
 
E mi sbatterono in una cella in cui non c’era nulla a parte lo sporco.
 
Mi misi in fondo.
 
Accanto alla finestra.
 
La cella puzzava di umido, ferro e ruggine.
 
Pensai che non avrei dovuto aspettare molto.
 
Ed intanto mi misi ad ascoltare la pioggia che batteva sulle sbarre.
 
 
 
Poi li sentii arrivare.
 
Ogni carcere ha la sua “squadretta” di guardie che fanno il lavoro sporco.
 
E quelle del carcere di Sulmona erano famose per tutti i detenuti che avevano massacrato di botte.
 
Udii i loro passi strascicare nel corridoio.
 
Trattenni il respiro.
 
E tesi le orecchie.
 
Il mio cuore emise una serie di gemiti.
 
Per consolarlo gli feci un sorriso d’incoraggiamento. 
 
Mi esplorai la bocca con la lingua alla ricerca di un po’ di saliva per fare coraggio a me stesso.
 
Mi entrarono in cella in quattro.
 
Il più grosso e più alto mi si parò subito davanti.
 
Ebbi subito voglia di mollargli un pugno.
 
Sentii che gli puzzava il fiato di grappa.
 
Pensai che non me ne andava bene una, perché da ubriache le guardie picchiano più forte.
 
Per qualche istante rimanemmo tutti in silenzio.
 
Sembrava un banchetto funebre.
 
Per non pensare ai calci e ai pugni che presto sarebbero arrivati tesi le orecchie per concentrarmi sul rumore del rubinetto che gocciolava.
 
All’improvviso mi arrivò un diretto che mi fece sbattere contro la parete di fronte.
 
Rimasi un attimo impalato.
 
Le prime botte hanno un effetto analgesico.
 
Poi capì che non ce l’avrei fatta a rimanere in piedi.
 
Mi si annebbio la vista.
 
Capii che stavo perdendo conoscenza.
 
Mi rannicchiai in un angolo.
 
Decisi che non mi dovevo muovere.
 
Non potevo fare altro.
 
Non mi conveniva.
 
Non dovevo muovermi.
 
E basta.
 
Fin quando non si sarebbero stancati.
 
Sperai che non mancasse molto.
 
Mi arrivarono una cascata di pugni e calci.
 
Chiusi gli occhi e desiderai morire.
 
Per un attimo mi sembrò che la vita mi stesse abbandonando.
 
E sperai che arrivasse la morte e mi portasse via.
 
 
 
Non ho mai odiato nessuno, anche se ci sono andato spesso vicino.
 
Forse l’ho fatto per principio, perché solo i deboli odiano.
 
E io ho sempre voluto essere forte.
 
Quella volta però ci andai vicino, a odiare quegli uomini in divisa che mi massacravano di botte.
 
Poi le guardie si stancarono di picchiarmi.
 
Andarono via.
 
E io mi sentì triste da morire.

Carmelo Musumeci

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