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CIE: la protesta delle ciabatte a Ponte Galeria

I centri di identificazione ed espulsione (CIE), prima denominati centri di permanenza temporanea (CPT), sono strutture previste dalla legge italiana. I CIE sono da intendersi come i terminali delle politiche migratorie italiane ed europee. Essi sono state istituiti in ottemperanza a quanto disposto all'articolo 12 della legge Turco-Napolitano (L. 40/1998) per ospitare gli stranieri "sottoposti a provvedimenti di espulsione e o di respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera" nel caso in cui il provvedimento non sia immediatamente eseguibile.

Il Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria è lo scenario della protesta "delle ciabatte". L’unico modo che hanno i duecento ospiti per denunciare le condizioni di vita invivibili, come affermato più volte dal Garante per i detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. Una voce autorevole rimasta inascoltata.

Per dar il via al tam tam mediatico, e scuotere l’opinione pubblica è stata necessaria una minaccia reale: due stranieri, che hanno raggiunto il tetto dell’edificio e minacciato di appiccare un incendio.

La struttura di Ponte Galeria è una delle più grandi della penisola ma i servizi sono scarsi e fatiscenti. Inoltre il freddo e la pioggia di questi giorni hanno portato ulteriore caos, soprattutto se si considera che gli ospiti sono obbligati (come indicato da una circolare della Prefettura) ad indossare ciabatte per scongiurare i rischi di fuga. Ma come affrontare fango o gelo con le sole ciabatte ai piedi? Il centro non dovrebbe offrire assistenza?

I Cie non nascono come carceri e gli stranieri ospitati sono sottoposti a detenzione amministrativa perché irregolari. Ma come dar torto a delle persone che trascorrono le ore della giornata in mezzo a quattro mura, costretti a restare in un attesa che non si sa dove li porterà.

Gli ospiti dei Cie sono persone che sono fuggite da zone di guerra, hanno cercato di costruirsi con la fuga, un futuro migliore per sé ed i propri cari. Hanno fatto una scommessa e la hanno persa. Attualmente sono in una specie di limbo tra il benessere che vedono fuori dalle mura di cinta e la miseria che li attende nella loro patria in quanto illegali.

Secondo Angiolo Maroni “la gestione quotidiana degli ospiti del centro è molto complessa, nonostante l’attenzione delle forze dell’ordine e gli operatori che gestiscono la struttura, è sempre più problematico garantire il rispetto dei diritti umani” . Considerando anche il fatto che per l’identificazione ci vogliono da un minimo di otto mesi ad un massimo di diciotto. Limite fissato dalla legge italiana e contestato dall’Unione Europea.

“Le condizioni di vita nel Cie”, denuncia Maroni, “sono pesantissime e i lunghi tempi di permanenza trasformano queste strutture in veri e propri luoghi di detenzione dove, paradossalmente, mancano le garanzie che ci sono nelle carceri”.

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