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Bullismo: si può essere geneticamente predisposti a subirlo?

Individuare precocemente la vulnerabilità a diventare vittime dei bulli: un interessante nuovo approccio per tutelare i ragazzi in età scolare.

di Federica Lavarini

Fotografia di Elizabet21, Wikimedia Commons, CC BY-SA 4.0

La realtà del bullismo tra bambini e adolescenti è un fenomeno di cui le cronache quotidiane riportano talvolta casi drammatici e che, probabilmente, sono solo alcuni esempi di un problema largamente diffusa nella fascia di età scolare: spesso sono cronache giudiziarie che vengono alla luce a seguito di denuncia da parte della vittima e dei suoi familiari. La comprensione del bullismo non può prescindere dall’analisi del contesto nel quale avviene. Di recente, uno studio apparso su Jama Psychiatry ha aggiunto un elemento che va al di là del mero fattore ambientale, riportando dati che identificano in alcuni fattori genetici una maggiore predisposizione di alcuni individui, più vulnerabili a diventare vittime di bullismo.

The Avon Longitudinal Study of Parents and Children (ALSPAC), meglio noto come “Children of the 90s”, condotto dall’Università di Bristol, rappresenta uno dei più importanti database che raccoglie informazioni di tipo genetico sui bambini nati nella Contea di Avon. Il repertorio contempla un campione di oltre 14mila bambini nati da gravidanze monitorate tra l’aprile del 1991 e il dicembre del 1992, assieme alle rispettive famiglie di provenienza. Tutti questi soggetti sono stati seguiti in modo costante e intensivo per oltre 25 anni e permettendo ai ricercatori inglesi di mettere a confronto il ruolo dei fattori genetici e ambientali sia rispetto allo sviluppo degli individui sia rispetto all’insorgenza delle malattie.

La Prof.ssa Mirella Ruggeri, direttrice della Clinica Psichiatrica del Policlinico Universitario di Verona ha ritenuto il metodo e l’interpretazione dei dati raccolti dai colleghi inglesi estremamente interessante.

È possibile correlare tratti genetici a una maggior possibilità ad essere vittime di bullismo?

Da molto tempo ci si interroga su quali possano essere le cause determinanti dei comportamenti umani e dell’insorgenza di malattie. Per quanto riguarda la psichiatria, fino a cinquant’anni fa – era l’epoca dei manicomi – si pensava che la malattia mentale avesse una base biologica, centrata sul cervello e la sua conformazione. Nell’ultimo cinquantennio si è iniziata a comprendere l’importanza dell’assetto genetico, estremamente sofisticato, e che la malattia, anche quella mentale, è caratterizzata da una interfaccia tra componenti genetiche e biologiche e contesto sociale.

I disturbi mentali, e i comportamenti correlati, sono uno degli ambiti dove maggiormente si esplica questo modello complesso, in cui oltre agli aspetti biologici e legati all’ambiente si deve tener conto anche dell’aspetto relazionale intimo, ad esempio il rapporto con i genitori nelle prime fasi della vita. Di fatto, il modello che meglio può spiegare la maggior parte dei disturbi psichici, e non solo, è il cosiddetto modello bio-psico-sociale.

Cosa ci dice il nuovo studio rispetto a quello che comunemente si pensa del bullismo?

Questo articolo parte dalle componenti genetiche, che sono un elemento di grande rilevanza per quanto riguarda la componente biologica, e che sempre più sembra influenzare aspetti più fini come l’emotività e il carattere. È una componente biologica che interferisce con i complessi meccanismi cerebrali e porta a modificare anche il comportamento delle persone e a determinarne le componenti di vulnerabilità.

Ci sono solo fattori genetici coinvolti?

Noi già sappiamo che alcune malattie mentali hanno una componente genetica, ad esempio la schizofrenia e la depressione. Tuttavia, la genetica non è il solo fattore determinante, perché la vulnerabilità viene modulata da elementi di tipo ambientale e dal contesto specifico di vita. Quindi, non si può dire che, una volta individuati i fattori genetici predisponenti, “i giochi siano fatti”. Alcuni autori ipotizzano una sorta di plasticità della vulnerabilità genetica, che può esprimersi in maniera più o meno grave, o più o meno precoce, sulla base dei fattori ambientali protettivi.

Come si identificano le vittime del bullismo rispetto ai fattori genetici?

Lo studio di Jean-Baptiste Pingault dell’University College di Londra evidenzia come ci siano fattori genetici che predispongono ad alcuni disturbi mentali, i cosiddetti disturbi esternalizzanti che, a sua volta, sono legati al bullismo. In particolare, gli autori hanno individuato: l’ADHD (attention deficit hyperactivity disorder) o disturbo da iperattività e disattenzione; i comportamenti che denotano eccitazione, agitazione e ipercinetismo; la tendenza all’intraprendere comportamenti ad alto rischio.

Inoltre, hanno individuato come vulnerabilità anche un fattore internalizzante, che non è esplosivo né visibile, che è la depressione, un quadro clinico spesso reattivo ad elementi ambientali di perdita e lutto ma anche legato ad un fattore di familiarità. I soggetti, caratterizzati da questa vulnerabilità genetica, possono, in teoria, essere identificati prima che diventino vittime di bullismo.

Come facciamo a individuarli in tempo?

È una questione di attenzione: secondo gli autori, un bambino con tratti che fanno sospettare una tendenza alla depressione può diventare più facilmente vittima di bullismo. Avere una sorta di griglia che aiuti a riconoscere i soggetti più a rischio permette di proteggere il bambino stesso prima ancora che avvenga l’episodio di bullismo. Si possono fornire al bambino degli strumenti, delle abilità, delle competenze, azioni di tipo preventivo, che lo rendano capace di difendersi da questi episodi. Inoltre, occorre tener conto di un parametro protettivo importante, che gli autori dimostrano in modo convincente: l’aspetto dell’intelligenza modula il rischio.

Questo percorso così promettente è percorribile?

Gli studi di genetica sono molto complessi perché la metodologia e la varietà del genoma umano richiede numeri elevatissimi per poter avere risultati affidabili. La numerosità di questo studio è ampia, e l’approccio di questo studio è assolutamente interessante: individuare precocemente la vulnerabilità ad essere vittima di bullismo. La scuola può essere un contesto importante al fine di compiere una ricognizione sullo stato di una persona, ma lo stigma che riguarda molti temi legati ala salute mentale è spesso un ostacolo alle iniziative di prevenzione.

Come andrebbe strutturata la cura mentale per i giovanissimi?

È un tema molto interessante. Io sto cercando di favorire un aumento di consapevolezza nel panorama italiano in relazione all’importanza di avere servizi che siano flessibili e che evitino la frammentazione delle cure in tutta la prima fase della vita delle persone. L’idea sarebbe quella di partire da come sta la mamma in gravidanza, a come si vive la genitorialità con il bambino piccolo, a come poi il bambino nel percorso scolastico vive i propri aspetti emotivi. È fondamentale che i servizi dedicati a queste fasi della vita non siano tutti disconnessi tra di loro.

Oggi spesso i ragazzi con vulnerabilità, difficoltà e varie problematiche legate al benessere psichico, al compimento del diciottesimo anno di età devono cambiare completamente il panorama che hanno attorno. Se tutto il percorso venisse invece condiviso fin dai 13 anni all’interno di un team, tutto sarebbe più semplice. Cambiare referenti, luogo e alfabeto spesso allontana dalle cure e questo avviene, purtroppo, troppo spesso in Italia come in tutto il resto del mondo.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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