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Brexit, le comiche non ancora finali

L’ultima della infinita e rumorosa serie di fattoidi e micro-eventi che tuttavia spingono verso la palude la Brexit è la richiesta del governo britannico alla Ue di negoziare sull’esatto periodo di transizione, cioè sulla data di effettiva uscita dal quadro normativo comunitario, verso un nuovo rapporto con l’Unione. Alla fine, quello che ne uscirà sarà una memorabile collezione di errori strategici di Londra, di quelli che si insegneranno nelle università nei decenni a venire.

Secondo la bozza di un position paper pubblicato mercoledì e sottoposto a Bruxelles nei giorni scorsi, il governo May chiede all’Unione che la durata del periodo di transizione sia determinata dal “tempo necessario a preparare ed implementare i nuovi processi e sistemi alla base della nuova partnership” con l’Unione. Che sarebbe “intorno a due anni”, secondo Londra, ma non oltre il 31 dicembre 2020 secondo Bruxelles, senza proroghe.

La data scelta dalla Ue non è casuale, ma rappresenta il termine dell’attuale ciclo settennale del bilancio comunitario. Londra minimizza la portata politica della proroga, dietro la quale c’è tuttavia la richiesta di poter interloquire e se del caso modificare le norme assunte dalla Ue durante il periodo di transizione, e che potrebbero impattare la posizione negoziale britannica, oltre che la sua economia. Allo stato attuale, Bruxelles non intende (come è ovvio che sia) concedere al Regno Unito alcun potere di veto né di co-determinazione relativo alle norme che vedranno la luce durante la transizione, ma solo un diritto di consultazione, ad esempio sulla pesca.

Ora, qui c’è da capirsi. E capire cosa c’è dietro questa persistente petulanza negoziale britannica. Il governo di Londra ha solennemente fissato nei mesi scorsi il termine di “uscita” dalla Ue a fine marzo 2019, al solo fine di fare contenti gli euroscettici della maggioranza. Ovviamente, a fine marzo 2019 non ci sarà alcuna uscita perché Londra non è pronta per un accidente di nulla, ed è corsa a chiedere una proroga di “circa due anni”.

Anche qui, siamo alle comiche ma non ancora finali. Accortisi che in nessun caso sarebbero riusciti a negoziare un nuovo trattato con la Ue entro i due anni previsti dall’Articolo 50 del Trattato di Lisbona, e non potendo chiederne sic et simpliciter la proroga, perché questo avrebbe fatto perdere loro la faccia, i britannici si sono inventati il “periodo di implementazione”, che è la proroga dell’Articolo 50 sotto mentite spoglie e che però deve ancora essere riempito di contenuti, che saranno frutto di negoziato con Bruxelles nei prossimi mesi, e che tutto sono fuorché scontati.

Se “Brexit means Brexit”, la strada dovrebbe essere una ed una sola: dopo il 31 marzo 2019, il Regno Unito esce da mercato unico ed unione doganale e ricade nel regime della WTO per il commercio estero, oltre a perdere il passporting finanziario per le banche basate sul proprio suolo. As easy as that. Invece, poiché a chiacchiere qualcuno è ormai insuperabile ma al confronto con la realtà si rompe le corna, ecco arrivare il “periodo di implementazione” di qualcosa che ancora neppure esiste, e che dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) prendere forma nei prossimi mesi.

A marzo, la Ue pubblicherà un documento con le linee guida sulla futura relazione che l’Unione dovrà negoziare col Regno Unito. Seguirà negoziato con Londra e, a ottobre di quest’anno, verrà pubblicata la dichiarazione politica associata al trattato di ritiro. Questa dichiarazione diverrà quindi la base per negoziare un trattato commerciale tra Ue e UK, dopo il marzo 2019.

Le imprese operanti nel Regno Unito sono sempre più nervose, però, e chiedono a voce alta certezza di scenario, in tempi ragionevoli. Quello che il governo May, lacerato al proprio interno tra falchi euroscettici e colombe realiste alla Philip Hammond, non riesce a dare. Cose che accadono, quando si affida ad un referendum una materia di complessità estrema come questa. Ma il Popolo è sovrano, no? E sia, quindi: il Popolo abbia ciò che lo attende, e lo abbia rapidamente.

Per il momento, chi ha perso la faccia e continua a perderla ogni giorno è chi si è fiondato a fissare una “data di uscita” che semplicemente non è tale, ed oggi mendica proroghe su proroghe, ed una cosiddetta maggioranza conservatrice che oggi potrebbe pure sostituire May per mano degli euroscettici ma finirebbe ancor più paralizzata, preparando il terreno per un governo di Jeremy Corbyn, la prossima legislatura (buono anche quello, visto che non ha una posizione vera sulla Brexit ma solo chiacchiere e distintivo rosso).

Nel frattempo, nel Regno Unito si attende l’ufficialità del trasloco definitivo in Olanda della storicamente bicefala Unilever. Il progetto Little England procede come previsto. E pensate che, ad oggi, non è ancora accaduto nulla.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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