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Brexit e il futuro dell’Europa

L’economia internazionale è da tempo in forte ripresa, i Paesi di tutto il mondo sono andati avanti e in molti casi non si sono neanche accorti della Brexit.

Dal canto suo Londra è sempre stata attenta ad evitare che l’istituzione dell’Europa potesse prendere realmente vigore. Preoccupata meno dall’esigenza di sviluppare il mercato comunitario e più dal fatto che potesse uscire dal controllo delle sue istituzioni finanziarie, assicurazioni, banche e sistema collegato (shadow banking). Le autorità europee sono state costantemente indebolite dagli interventi inglesi. Anche attraverso le sue numerose diramazioni. Così, mentre la Banca Centrale Europea chiedeva riforme strutturali, i giornali nazionali dei vari Paesi traducevano in aumento delle tasse. Mentre dall’Europa veniva sollecitata la lotta alla corruzione i media nazionali riportavano l’urgenza di ridurre le garanzie per i lavoratori. Oppure a fronte di studi e raccomandazioni dirette all’armonizzazione dei sistemi contabili e fiscali gli esponenti politici e i giornali nazionali riportavano: "riforma delle pensioni". E così via.
Nel frattempo i mercati hanno lavorato, il debito in Europa è cresciuto e l’economia ha ristagnato. I paesi extra UE hanno cessato di comprare obbligazioni europee, le azioni sono state sempre più evitate e il fabbisogno derivante è stato colmato dalle enormi iniezioni di liquidità della BCE. Ma come si è arrivati alla Brexit, cosa c’entra l’Inghilterra in tutto questo? Proprio negli ultimi mesi, Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea, aveva avvertito che qualunque fosse stato l’ammontare di denaro che la BCE avesse messo sul piatto sarebbe ormai stato inefficace, richiamando l’attenzione all’alternativa tra le riforme bancarie o il default dei bilanci degli Stati.

E’ forse utile ricordare la prassi che è alla base del sistema bancario europeo. Infatti prassi consolidata degli europei è quella di generare debiti per poi non pagarli spostandoli nei bilanci degli Stati o in quelli delle loro banche a seconda di dove cada l’occhio dei mercati. Oppure di nasconderli nella valorizzazione di asset speciali. Ma questo fu appunto l’epilogo della crisi del 2008: allora, l’aver nascosto l’enorme debito europeo nella valorizzazione degli immobili, e relativi strumenti collegati sparsi in tutto il mondo, non ha risparmiato i possessori americani dei subprime (simili alle nostre obbligazioni non garantite) legati ai mutui immobiliari, travolgendo prima la banca Bear Stearns, poi Lehman Brothers e ancora la compagnia di assicurazioni più grande del mondo AIG e tutto il sistema assicurativo mondiale collegato comprese Fannie Mae e Freddie Mac.

Ad oggi a fronte dell’inerzia conclamata dell’Europa, dopo quasi dieci anni da quei fatti, l’Europa si è trovata costretta ad approvare procedure di salvataggio degli Stati nazionali. E’ il caso del c.d. bail in, dei limiti crescenti di liquidità richiesti alle banche, unione bancaria ed altre misure in agenda. Palliativi. Per non cambiare nulla dei comportamenti che quei debiti producono. Chiaramente diretti a prendere tempo, sperando che l’economia mondiale si riprenda e faccia sparire magicamente i debiti dell’Europa.

Ma l’economia mondiale si è già ripresa ed i Paesi di tutto il mondo sono andati avanti preoccupandosi di isolare finanziariamente il pericolo europeo. Gli Stati Uniti sono stati i primi ad aver vietato alle banche di fare investimenti imponendo la separazione tra il prestito e l’investimento. A riformare le assicurazioni, imponendogli procedure standard e non più discrezionali nel ripagare le prestazioni agli assicurati. E sono oggi in crescita continua con disoccupazione “zero tecnico” e salari e garanzie per i lavoratori in crescita.
Numerose Free Trade Areas, aree di libero scambio, stanno nascendo rendendo obsoleto lo stesso modello che è alla base dell’Europa. Il vecchio continente è ormai del tutto isolato dai trattati tra USA e paesi asiatici, USA e America del sud (o USA e Medio Oriente, Iran, ecc.). Aree di libero scambio ora pronte per essere armonizzate e uniformarsi tra loro. Questi Paesi semplicemente non ritengono più l’Europa un partner commerciale affidabile, pensano a sfilarsi il più possibile e in molti casi non si sono neanche accorti della Brexit. Per tutti essi le regole sono semplici: come in tutti i mercati per farne parte bisogna semplicemente onorare gli scambi corrispondendo le prestazioni. L’Argentina ha ripagato per es. per intero i possessori dei loro bond di tutto il mondo che erano rimasti insoddisfatti dal tempo del default del 2001.

E’ forse ora chiaro perchè l’Inghilterra ha scelto di sfilarsi dall’Europa, da un lato per mettersi al riparo dai suoi debiti (che lei stessa gli ha imposto di generare) e dall’altro per non dover sottostare ad una reale riforma del sistema finanziario.

Qui è ora dove siamo oggi. Ma come sostiene George Soros, tutta l’Europa, incluso il Regno Unito, soffrirà dalla perdita del mercato comune e dalla perdita dei valori comuni per la cui protezione l’Unione Europea era stata disegnata. Almeno fin quando l’Europa non è stata smantellata nelle sue funzioni, separata dalla volontà e dai bisogni dei suoi cittadini ed asservita a conglomerati finanziari zombie. La strada intrapresa d’allora è, sempre più evidentemente, quella di una distruzione potenzialmente violenta dell’Europa.

In alternativa, ci troviamo ora delle strutture istituzionali che i cittadini possono liberare e rimettere al lavoro secondo processi finanziari e sociali di tipo democratico. La capacità dei cittadini e dei governi di lasciar fallire banche ed assicurazioni senza coinvolgere i bilanci degli Stati e la salvaguardia delle persone farà la differenza tra l’aggiornamento dei modelli economici e la dissoluzione delle istituzioni. Restiamo convinti che, alla luce delle conseguenze che Brexit provocherà nelle settimane e nei mesi avvenire sempre più persone si uniranno insieme. 

(sb-ic.com)

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di Persio Flacco (---.---.---.160) 6 gennaio 2017 21:58
    In materia di Economia potrei definirmi un profano informato, dunque il valore dei miei ragionamenti vanno inscritti in questa cornice. A chi si sta chiedendo legittimamente: "Ma allora perché intervieni su una materia che non conosci? Faresti meglio a tacere e a lasciar parlare gli esperti." rispondo: perché le dinamiche economiche mi riguardano, influiscono direttamente sui miei interessi primari e perché non mi fido affatto della categoria degli economisti.
    Prima della crisi finanziaria del 2007/2008 ero felicemente un profano senza aggettivi. Dopo la crisi, avendo constatato la fenomenale debacle mondiale dei depositari della scienza economica nel prevederla, avendo preso atto che la credibilità delle decine, delle centinaia, di esperti economisti che quotidianamente pontificavano sui mass media distillando la loro sapienza al volgo, era caduta rovinosamente a zero, ho iniziato ad informarmi. Ed è questo a legittimare il mio intervento.
    Alcune affermazioni:
    La prima riguarda in generale l’Economia. Qualunque ragionamento o previsione in materia di economia e finanza che non tenga conto dei più rilevanti aspetti della realtà politica, sociale e anche culturale di un certo contesto e delle sue relazioni in ambito geopolitico, è priva di fondamento.
    La seconda riguarda l’Unione Europea. Attualmente la governance della UE presenta un marcato deficit quanto a capacità e affidabilità del management. In breve: la UE è come un’azienda i cui vertici sono agli ordini del suo maggiore concorrente. E’ evidentemente incapace di badare agli interessi dei soci ma li comanda a bacchetta.
    La terza sul Regno Unito. Come è noto, grazie alla speculazione di Soros, che ora ci ammonisce a salvare l’Unione, la Sterlina dovette uscire dallo SME per non rientrarvi più, rimanendo quindi fuori dalla moneta unica. E così è rimasta: con un piede nell’Unione e con l’altro fuori. A ciò hanno concorso la mentalità isolana; la memoria imperiale e la collana di paradisi fiscali, sotto forma di protettorati della Corona, come succedaneo dell’impero perduto; lo speciale rapporto con gli USA, fondato su una serie di affinità in svariati campi, non ultimo quello della leadership condivisa sulla rivoluzione neoliberista inaugurata da Tatcher e Reagan.
    La Brexit deriva dalla pressione imposta alle classi medio basse dell’UK dalla crisi economica indotta dal crollo finanziario del 2007/2008 rafforzata dal deficit di governance dell’Unione. I cittadini del Regno Unito hanno percepito la permanenza nell’Unione Europea come un’àncora che rischiava di trascinare al fondo la sua economia e la crescente pressione ad uniformare le normative del loro Paese come una minaccia alla loro identità culturale.
    Il Regno Unito non è il solo Paese membro dell’Unione in cui sono presenti queste tendenze di fondo, ma era il solo che poteva permettersi di non subire traumi dell’uscita dall’Euro essendone già fuori.
    Prospettive. 
    Priva di una governance votata a tutelare unicamente i suoi interessi, lo spazio economico europeo è destinato ad un lento ed inevitabile deterioramento fino a una improvvisa crisi. Senza istituzioni trasparenti e democratiche la fiducia dei cittadini europei nell’Unione non potrà risalire la china in cui è caduta, e senza la fiducia dei cittadini non è più possibile alcuna seria riforma che ponga rimedio alla sua debolezza strutturale che espella e sostituisca la classe dirigente incapace e infedele che attualmente la guida.
    Se questa è la realtà, e credo che lo sia, i sistemi economico produttivi dei Paesi membri vireranno sempre più marcatamente verso una mentalità nazionalistica, ponendo in tal modo spontaneamente le basi del dopo UE. Ad iniziare dalla Germania, ovviamente, poi dall’Austria e dai Paesi Bassi, e dalla Francia, con i suoi satelliti, e via via dagli altri, dando vita a macroregioni economiche unite da comuni e immediati interessi di mercato.
    A noi italiani, oppressi da una dittatura partitocratica corrotta e corruttrice che nulla ha fatto per porre rimedio alle nostre tare, non rimarrà che ricordare le rime del Padre Dante, sperando che qualcuno ci compri per un tozzo di pane.
    Sarei curioso di sapere quali indicazioni darebbe un esperto di economia se questo scenario fosse realistico.

  • Di Persio Flacco (---.---.---.160) 6 gennaio 2017 21:59
    In materia di Economia potrei definirmi un profano informato, dunque il valore dei miei ragionamenti vanno inscritti in questa cornice. A chi si sta chiedendo legittimamente: "Ma allora perché intervieni su una materia che non conosci? Faresti meglio a tacere e a lasciar parlare gli esperti." rispondo: perché le dinamiche economiche mi riguardano, influiscono direttamente sui miei interessi primari e perché non mi fido affatto della categoria degli economisti.
    Prima della crisi finanziaria del 2007/2008 ero felicemente un profano senza aggettivi. Dopo la crisi, avendo constatato la fenomenale debacle mondiale dei depositari della scienza economica nel prevederla, avendo preso atto che la credibilità delle decine, delle centinaia, di esperti economisti che quotidianamente pontificavano sui mass media distillando la loro sapienza al volgo, era caduta rovinosamente a zero, ho iniziato ad informarmi. Ed è questo a legittimare il mio intervento.
    Alcune affermazioni:
    La prima riguarda in generale l’Economia. Qualunque ragionamento o previsione in materia di economia e finanza che non tenga conto dei più rilevanti aspetti della realtà politica, sociale e anche culturale di un certo contesto e delle sue relazioni in ambito geopolitico, è priva di fondamento.
    La seconda riguarda l’Unione Europea. Attualmente la governance della UE presenta un marcato deficit quanto a capacità e affidabilità del management. In breve: la UE è come un’azienda i cui vertici sono agli ordini del suo maggiore concorrente. E’ evidentemente incapace di badare agli interessi dei soci ma li comanda a bacchetta.
    La terza sul Regno Unito. Come è noto, grazie alla speculazione di Soros, che ora ci ammonisce a salvare l’Unione, la Sterlina dovette uscire dallo SME per non rientrarvi più, rimanendo quindi fuori dalla moneta unica. E così è rimasta: con un piede nell’Unione e con l’altro fuori. A ciò hanno concorso la mentalità isolana; la memoria imperiale e la collana di paradisi fiscali, sotto forma di protettorati della Corona, come succedaneo dell’impero perduto; lo speciale rapporto con gli USA, fondato su una serie di affinità in svariati campi, non ultimo quello della leadership condivisa sulla rivoluzione neoliberista inaugurata da Tatcher e Reagan.
    La Brexit deriva dalla pressione imposta alle classi medio basse dell’UK dalla crisi economica indotta dal crollo finanziario del 2007/2008 rafforzata dal deficit di governance dell’Unione. I cittadini del Regno Unito hanno percepito la permanenza nell’Unione Europea come un’àncora che rischiava di trascinare al fondo la sua economia e la crescente pressione ad uniformare le normative del loro Paese come una minaccia alla loro identità culturale.
    Il Regno Unito non è il solo Paese membro dell’Unione in cui sono presenti queste tendenze di fondo, ma era il solo che poteva permettersi di non subire traumi dell’uscita dall’Euro essendone già fuori.
    Prospettive. 
    Priva di una governance votata a tutelare unicamente i suoi interessi, lo spazio economico europeo è destinato ad un lento ed inevitabile deterioramento fino a una improvvisa crisi. Senza istituzioni trasparenti e democratiche la fiducia dei cittadini europei nell’Unione non potrà risalire la china in cui è caduta, e senza la fiducia dei cittadini non è più possibile alcuna seria riforma che ponga rimedio alla sua debolezza strutturale che espella e sostituisca la classe dirigente incapace e infedele che attualmente la guida.
    Se questa è la realtà, e credo che lo sia, i sistemi economico produttivi dei Paesi membri vireranno sempre più marcatamente verso una mentalità nazionalistica, ponendo in tal modo spontaneamente le basi del dopo UE. Ad iniziare dalla Germania, ovviamente, poi dall’Austria e dai Paesi Bassi, e dalla Francia, con i suoi satelliti, e via via dagli altri, dando vita a macroregioni economiche unite da comuni e immediati interessi di mercato.
    A noi italiani, oppressi da una dittatura partitocratica corrotta e corruttrice che nulla ha fatto per porre rimedio alle nostre tare, non rimarrà che ricordare le rime del Padre Dante, sperando che qualcuno ci compri per un tozzo di pane.
    Sarei curioso di sapere quali indicazioni darebbe un esperto di economia se questo scenario fosse realistico.
  • Di Persio Flacco (---.---.---.160) 6 gennaio 2017 22:01

    Chiedo venia per il doppio invio.

  • Di Persio Flacco (---.---.---.160) 7 gennaio 2017 12:16
    Visto che intervengo sull’argomento di economia e finanza ne approfitto per discorrere un po’ anche di teoria. Una teoria (ri)elaborata da un profano dichiarato, benché informato, allo scopo di illuminare una realtà dagli effetti rilevantissimi sulla vita delle persone comuni ma che la categoria degli economisti lascia accuratamente all’oscuro.
    Si tratta di una teoria del valore molto semplice, trattabile senza far ricorso alla matematica, elaborata per spiegare sunomeni altrimenti inspiegabili come le straordinarie oscillazioni che subisce il valore di borsa della aziende quotate e come la penuria di liquidità a disposizione dell’economia reale in presenza di banche centrali che stampano moneta in quantità industriali.
    Il ragionamento è il seguente.
    In un contesto di economia di mercato ideale, contesto semplificato ma non irrealistico, chi detiene il capitale finanziario (Il Finanziere) cerca di ricavare un profitto dal suo impiego investendolo nell’economia reale delle imprese produttrici di beni e servizi (Imprese). E’ ovvio che la realizzazione del profitto, la sua entità, la stessa conservazione del capitale, dipendono dalla capacità del Finanziere nell’individuare le Imprese più promettenti presenti sul mercato nelle quali investire, oltre che dalla sua propensione al rischio.
    Il Finanziere deve quindi saper valutare tutta una serie di parametri che riguardano le Imprese: la solidità patrimoniale, la qualità del management, le prospettive di mercato, la capacità di innovazione. Nel valutare tali parametri il Finanziere deve mettere in campo conoscenza, intelligenza, coraggio. In questo modo, alla ricerca del profitto, il Finanziere opera una selezione tra le Imprese, scartando le peggiori che, senza finanziamenti, sono destinate a soccombere, e premiando le migliori le quali, col contributo del suo capitale, possono crescere ed emergere.
    In questo contesto il profitto ricavato dall’investimento è il giusto compenso per avere usato competenza, intelligenza e coraggio. Allo stesso tempo, e a prescindere dalle motivazioni del Finanziere, il Mercato si avvantaggia della selezione da esso operata che ha premiato le imprese migliori e affossato quelle peggiori. In tale contesto quindi il profitto che compensa l’investimento corrisponde ad una parte del surplus di valore reale creato dalle imprese e va a vantaggio dell’intero sistema economico. Per completezza va aggiunto che ciò non comporta necessariamente un vantaggio per l’intero sistema sociale al quale il sistema economico si riferisce e da cui è ricompreso. Le qualità di competenza, intelligenza, coraggio, dispiegate dal Finanziere, infatti, prescindono totalmente dalle esigenze della società, dalle sue disfunzioni, dalla equa distribuzione della ricchezza. Tutte cure queste che sono a carico della Politica. Fin qui la teoria del valore.
    Il contesto reale purtroppo è assai diverso da quello ideale tratteggiato sopra, ed è assai peggiorato negli ultimi trenta anni.
    Nel contesto reale contemporaneo il Finanziere trova più conveniente investire il suo capitale in impieghi puramente speculativi. Il profitto non deriva più dal surplus di valore reale creato dalle imprese bensì da scommesse sull’andamento di titoli, monete, materie prime, fiducia dei consumatori e degli stessi investitori. Il valore nominale di un’impresa non è più determinato in base all’analisi dei suoi fondamentali, dalle sue prospettive di mercato, dalla sua capacità di innovazione, bensì da quanti scommettono a suo vantaggio o a suo danno, facendo salire o scendere il suo valore nominale.
    L’apoteosi di tale nuovo corso del ruolo del Finanziere è rappresentato dai sistemi automatici che gestiscono le cosiddette HFT, acronimo che sta per "high frequency trading" (transazioni commerciali ad alta frequenza). Potenti algoritmi che girano su computer installati in prossimità del sistema informatico che gestisce la Borsa "annusano" le tendenze degli investitori precedendo i loro ordini e interponendosi ad essi per realizzare transazioni della durata di frazioni si secondo. Il piccolo profitto unitario moltiplicato per milioni di transazioni fornisce al gestore un profitto complessivo considerevole. Senza impiego di competenza, intelligenza, coraggio, è evidente che tale sistema non apporta nulla di positivo al sistema economico. In talune piazze questo genere di investimenti ormai assorbe il 70-80% dei movimenti di capitale che, di conseguenza, non esercitano più la funzione di selezione positiva sul mercato. Il profitto che viene generato non può più essere considerato la giusta remunerazione per il surplus di valore reale creato dalle imprese, deve essere invece considerato come una mera *sottrazione* di valore reale e trasformazione in valore *nominale*. 
    Le HFT non sono il solo espediente oggi in voga nel capitalismo finanziario per creare valore virtuale, mi limito a questo perché lo considero il più emblematico tra quelli che fotografano la metamorfosi subita del ruolo della Finanza dei nostri giorni. Dovrei aggiungere la pletora di micro-trader ai quali aziende di intermediazione hanno fornito un "cruscotto" applicativo grazie al quale, dal computer di casa, possono giocarsi lo stipendio o la pensione scommettendo su titoli, materie prime, monete. Con quale competenza, intelligenza, coraggio, è facile immaginare. Questo sarebbe da considerare un fenomeno marginale, se non fosse che nel complesso questi micro-trader costituiscono ormai una massa critica rilevante. Che ha una particolarità: si presta egregiamente ad essere manovrata dai grandi investitori.
    Bene, leggendo gli economisti che pubblicano le loro analisi sui mass media niente di tutto questo sembra essere rilevante. Così come negli anni che precedettero la crisi del 2007/2008 non era considerata rilevante, né apparentemente era stata rilevata, la gigantesca bolla speculativa che si andava gonfiando sui derivati al sottostante dei mutui subprime statunitensi.
    Gli economisti continuano a trattare delle traversie dei mercati finanziari come se le sue macroscopiche degenerazioni non esistessero e dunque non avessero alcuna influenza. Ed è addirittura comico sentire gli esperti di borsa arrampicarsi sugli specchi per tentare di giustificare con motivi di economia reale le spettacolari variazioni del valore nominale dei titoli quotati. Spesso, quando nulla di reale può giustificare un crollo vertiginoso, o un altrettanto vertiginosa ascesa, il loro imbarazzo è palpabile.
    Tutto questo, mi duole dirlo, mi conferma nell’opinione maturata in occasione della crisi del 2007/2008: della categoria degli economisti non ci si può fidare. Lungi dall’essere studiosi imparziali, sono tutti conniventi con i maestri della speculazione e con i loro manutengoli della politica.

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