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Brexit: dai dazi doganali al deprezzamento della Sterlina. Selling England by the Pound, the sequel

Una delle tesi più suggestive a sostegno della Brexit e dei suoi effetti (soprattutto il deprezzamento della sterlina), sostiene che il Regno Unito sia sin qui stato colpito da una particolare versione della “malattia olandese“, il fenomeno che, a seguito di un boom delle materie prime, determina un apprezzamento reale del cambio ed il mancato sviluppo o il sottodimensionamento della manifattura.

 Al Regno Unito, secondo alcuni osservatori tra cui Paul Krugman, si applicherebbe una peculiare versione della malattia olandese, col settore dei servizi finanziari a far la parte delle materie prime.

Prescindendo dal fatto che il Regno Unito ha effettivamente avuto un boom di gas e petrolio, e che la sua manifattura non è poi così rachitica, la conclusione a cui arriva chi sostiene la tesi della malattia olandese è che ora i britannici potranno dedicarsi allo sviluppo della manifattura, ed alla riduzione delle diseguaglianze di reddito e ricchezza causate dall’ipertrofico settore finanziario, destinato a fare una brutta fine in caso di Hard Brexit e conseguente perdita dei diritti di passporting, cioè di vendita in Ue di prodotti finanziari Made in UK. Fosse così semplice.

L’argomentazione sostiene, classicamente, che il deprezzamento della sterlina aiuterebbe l’export britannico, e sin qui non ci piove. Sfortunatamente, nel mezzo abbiamo alcuni dettagli. Ad esempio, il fatto che in caso di Hard Brexit ci sarebbe anche l’uscita dall’unione doganale, il che equivarrebbe a vedere i propri manufatti trattati a tariffa di base Wto, che vuol dire penalizzati rispetto allo status quo. Altro dettaglio minore e sottaciuto in questa transizione verso la felicità è l’impatto del cambio sulla vita dei cittadini. Un dato sinora poco conosciuto, almeno dalle nostre parti, è quello relativo al fatto che i salari medi reali britannici (cioè al netto dell’inflazione), nel periodo 2007-2015, cioè post crisi, sono diminuiti del 10,4%, peggior risultato Ocse a pari merito con la Grecia.

Se qualcuno viene a dirvi che, in assenza di una propria moneta da svalutare, si è costretti a svalutare il lavoro, fategli umilmente notare che questa è pura illusione monetaria. Il Regno Unito ha limitato i danni durante la crisi anche grazie al deprezzamento della sterlina, ma il prezzo è stato una perdita secca di potere d’acquisto. Quando finirete di giocare con la variabili nominali tacendo di quelle reali, per sfruttare l’illusione monetaria del prossimo? Eh, però siamo in deflazione, signora mia, quindi un po’ di inflazione ci sta anche bene. Attendete fiduciosi, allora.

Perché la sterlina sta deprezzandosi in maniera così vistosa, con una volatilità che ricorda quella delle valute emergenti? Perché la premier May ha finalmente gettato la maschera, indicando la preferenza sua e del suo governo per una Hard Brexit, il che significa uscita anche dall’unione doganale, non solo dal mercato unico. E quindi?, chiederanno i più maieutici tra voi. Per avere la risposta, osservate questo grafico: da esso si ricava la composizione del pesante deficit britannico delle partite correnti.

Come potete osservare, la componente oggi in surplus è quella dei servizi, segnatamente quelli finanziari. In caso di Hard Brexit, fine del passporting finanziario, e addio a quel surplus. Ecco perché i mercati, che proprio scemi non sono, hanno fiutato il sangue. Certo, si può sempre trasformare il Regno Unito in un paradiso per facoltosi turisti stranieri.

La sintesi, quindi? Una classica: tra due stati del mondo esiste una cosa chiamata transizione, durante la quale si producono le maggiori redistribuzioni, soprattutto di umana sofferenza. Se il Regno Unito smetterà di essere un centro finanziario di levatura mondiale, i suoi eletti punteranno a farne una tigre manifatturiera orientata all’export. Vista la situazione del commercio internazionale, non tratterremmo il respiro nell’attesa dei risultati. Nel frattempo, ciò che è razionale attendersi è un ulteriore giro di giostra e di vite sui salari reali britannici.

Una discreta ironia, per quanti hanno votato Brexit soprattutto perché incazzati neri per aver visto il proprio potere d’acquisto taglieggiato di un decimo negli ultimi otto anni. Ma tutto questo scenario vale per Hard Brexit, ovviamente. L’alternativa è finire nell’Area Economica Europea e fare come la Norvegia (cioè pagare la Ue senza fiatare né aver voce in capitolo), oppure puntare ad accordi bilaterali con la Ue, in stile Svizzera. Proprio loro, quelli che stanno rimangiandosi un referendum costituzionale sul controllo dell’immigrazione per non vedersi cancellati gli accordi bilaterali medesimi.

Per fortuna, in mezzo a tutte queste angustie, restiamo noi italiani, pronti ad uscire dall’euro durante un weekend. Meglio se piovoso.

Lettura complementare consigliata – Sulla rinascita manifatturiera e sulla sostituzione delle importazioni con produzioni domestiche (l’eterna promessa delle grandi svalutazioni), Ryan Avent sull’Economist. Tempo speso bene, per ripulirsi dalle scorie dell’illusione e della faciloneria.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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