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Breve excursus da ’Narrare - Dall’Odissea al mondo Ikea’ di Davide Pinardi - parte I

‘Narrare – Dall’Odissea al mondo Ikea’ non è un libro facilmente catalogabile, è difficile stabilire ‘a chi’ si rivolge quanto ‘cosa’ esprime. E lo è perché si tratta di un saggio fortemente ambizioso, usare il termine ‘coraggioso’ oggi ne deformerebbe la percezione (per taluni sono coraggiosi i militari in servizio volontario in territori massacrati da conflitti ancora in corso, ma per altri sono tutt’altro; sono coraggiosi i manifestanti per questa o quella ragione ma anche no; c’è chi si sente coraggioso per aver messo al mondo un bambino, di questi tempi; chi invece è considerato coraggioso per “aver sopportato tanto dolore e per giunta in casa, col corpo della figlia morta ancora caldo e i suoi assassini in giro per casa”…). In ogni caso è anche un libro coraggioso, secondo me.
 
Scrivere del ‘narrare’ non solo è rischioso, ormai, ma anche fortemente complesso proprio per ciò che già è stato scritto, detto, espresso, sottinteso. Per ciò che tutti – chi più, chi meno – ritiene di sapere già, di non aver bisogno di ulteriori ‘cerebrazioni’.
Chi, oggigiorno, non sa cos’è narrare? Chi non ha mai avuto tra le mani almeno una volta un manuale di narrativa o di scrittura o di letteratura?
 
A dispetto di ogni possibile replica, questo saggio di Davide Pinardi va letto.
In alcune parti, specialmente iniziali, non è necessario lavorare nell’editoria o avere interessi o passioni per la scrittura o la lettura.
 
Pinardi scrive come se monologasse direttamente col lettore che è allo stesso tempo il compagno di tavolo al bar e lo spettatore d’un teatro silenzioso eppure brulicante si sussurri, bisbigli, sottofondi mutevoli.
 
Altri capitoli, sul finire del libro, sono decisamente più tecnici, in un qualche modo ammiccano agli operatori di settori, a chi già scrive magari da professionista o a chi insegna, a chi sa di sapere. Ammiccano ma non si perdono in banalismi, retoriche o frasi rintracciate qui e là da altre pubblicazioni. Pinardi non inventa nulla. La sfida, la battaglia dentro questo libro, è dire in altro modo, dire unendo fili e collegamenti meno usuali, non nuovi, non arricchiti da effetti tridimensionali o scintille glamour. La sfida è dire del già detto dicendo molto di più di ciò che l’aspettativa sociale comune tende a scatenare (simil gioco di parole, lo so).
 
Per ‘tagliare la testa al toro’, suggerisco di leggere l’Introduzione. Basta per decidere se leggere il resto, secondo me.
 
“Esse costituiscono alcune delle infinite e complesse immagini del mondo – reale o virtuale, esistente o fantastico – che gli esseri umani si costruiscono e si trasmettono ogni giorno allo scopo di vivere insieme, di condividere emozioni e strategie di sopravvivenza, di lottare l’uno contor l’altro o di aiutarsi con generosità” (pag.1). Esse, le narrazioni.
 
Le narrazioni sono ovunque, s’insinuano nelle giornate di ognuno, nei gesti, i piccoli dettagli banali quanto gli imprevisti. I ‘prodotti narrativi’ sono ovunque, a volte li acquistiamo consapevolmente, altre no, altre ci entrano dentro senza preavviso e noi ne tratteniamo molte più schegge di quante siamo disposti ad ammettere.
 
Naturalmente è necessario distinguere, contestualizzare.
Ed è – a mio avviso – uno dei punti di forza di questo libro. Pinardi non lesina in chiarimenti, ragionamenti atti a spiegare l’uso dei termini, i significati, i misunderstanding quanto i possibili usi e le logiche in essi contenute.
 
Quanto pensiamo al termine ‘narrazione’ siamo portati a circoscriverne il campo d’azione, identifichiamo mentalmente esempi concreti o concetti. Spesso visualizziamo precisi ‘oggetti’ (libri, film…). Questo libro inizia decostruendo proprio tali automatismi, non errati, di certo non eticamente scorretti, eppure parziali, riflessi di angolazioni individuali quanto collettive, consapevoli ma anche, a volte, socialmente imposti.
Pinardi propone panoramiche.
In fondo, si tratta di codificare, tradurre, attribuire significati a segni.
“Dobbiamo riprendere a studiare le narrazioni dall’interno per capire come orientarci. Dobbiamo ritrovare parametri di merito e di qualità per valutarle, giudicarle e controbatterle.” (pag.2 sempre dell’Introduzione).
Questo è il punto.
Stabilire chi-cosa è ‘Narrare’. Quali potenziali diramazioni ha, nel vivere di chiunque. E imparare a distinguere, riprendere la sana abitudine di muovere i propri neuroni, difendersi se necessario, assorbire se utile, capire il più possibile, ma soprattutto rimanere in ascolto.
Narrare ci fa essere ciò che siamo, oggi come ieri. Narrare ha contribuito a portarci qui e ora perché “è una delle modalità operative dei processi cognitivi che ci permettono sia di (tentare di) riordinare e comprendere il mondo, come indicava Roland Barthes, sia di socializzare questa conoscenza” (pag.10, ultima dell’Introduzione).
 
L’essere umano costruisce “immagini della realtà” in ogni momento, e non è una provocazione. È ciò che facciamo, più o meno consapevolmente. Ad esempio quando raccontiamo ad un collega cosa ci è successo al supermercato: stiamo ricostruendo l’immagine d’un reale che abbiamo vissuto registrandolo e ora lo riproponiamo a qualcun altro. Esattamente come negli articoli. Esattamente come nei comunicati politici, i discorsi religiosi, gli annunci di gossip, anche una legge può narrare. Anche una tabella di indici economici. Cambiano i contesti, cambiano i ‘soggetti comunicanti’, possono cambiare le finalità, gli intenti, i linguaggi dunque i codici usati. Cambiano i ruoli. Ma la sostanza, quella che Pinardi tenta di esporre, la sostanza nelle sue fondamenta resta la stessa. Sta al “narratario” stabile che fare, che capire, che assorbire, che rielaborare, che riutilizzare di tutte queste narrazioni che lo penetrano continuamente.
 
Anche il narratario ha “una responsabilità che corre parallelamente, e soltanto con un lieve ritardo temporale, alla responsabilità del narratore” (pag.84). Nulla di nuovo, per l’appunto. Se la tal pubblicità è considerata pericolosa per la psiche dei bambini, denunciarla con le modalità del caso è responsabilità di chi l’ha vista avvertendone il pericolo. Esattamente come se la tesi del tal relattore non è condivisa da qualcuno, è responsabilità di quel qualcuno – se crede, se vuole, se ritiene – di argomentare le proprie ragioni.
 
In realtà abdichiamo continuamente alle responsabilità, proprio perché le narrazioni sono ovunque, non danno tregua, e sono seduttive ("Una narrazione è simile a un processo seduttivo - e i seduttori infatti narrano e si narrano continuamente - : il narratore conduce a sé il fruitore della narrazione, ne diminuisce o aggira le resistenze istintive, ne condziona i comportamenti, le scelte, i sistemi di valori", pag.77).
Dalle medialità al web, dai vicini ai conoscenti occasionali (mai successo di scambiare qualche parola con uno sconosciuto in attesa dal medico o in posta, ad esempio? “Sono in ritardo, maledizione, dovevo essere al lavoro un’ora fa, sa ho un capo insopportabile che ci tiene al guinzaglio”. Non è anche questa la costruzione dell’immagine di una realtà che si trasmettendo?). Produciamo e subiamo narrazione in continuazione.
 
In questo saggio ho trovato diverse implicazioni, a livello ragionativo individuale, sul piano delle capacità critiche o del loro sviluppo in autonomia quanto sulla possibilità di riconsiderare alcuni elementi del vivere non più come scontati, automatici e immobili. Bensì come frutto di narrazioni complesse, che silenziosamente ci spingono in questa o quell’altra direzione, che altrettanto silenziosamente (e a volte subdolamente) ci sussurrano che fare, che essere, che dire.
 
“Sulle narrazioni si fonda gran parte del nostro esistere, della nostra cultura, del nostro agire”. (pag. 20)
“Le narrazioni ci seguono dalla nascita alla morte”. (pag.21)
 
 
 
[segue]
 
 
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Focus
 
Un esempio calzante - a mio avviso - di narrazione entro i significati e i contesti enunciati da Pinardi, sono le moltitudini di show, prevalentemente di produzioni americane, che propongono ‘in episodi’ le riprese del vivere quotidiano di ‘personaggi’ più o meno noti di diversa provenienza e occupazione sociale.
 
Inizialmente sono stati immessi nel mercato come 'reality' sebbene negli anni hanno sviluppato caratteristiche identitarie (che non li rendono comparabili o confondibili con altre produzioni sempre etichettate come 'reality', un esempio per tutti: il notissimo GF).
 
Ultimamente talune produzioni li classifica anche come‘docu-soap’ (o docu drama), una miscelazione etimologica tra ‘documentary’ e ‘soap opera, specialmente se i soggetti delle riprese non sono prioritariamente noti o pubblici.
 
 
Da Word Reference: “programma che mostra in forma documentaristica aspetti della vita quotidiana di gente comune”.
In pratica uno o più soggetti accettano di essere ripresi in diversi momenti del loro vivere, di solito al di fuori delle abituali dinamiche in cui lo spettatore li può vedere e immaginare (si tratta ad esempio di figli di personalità note, cantanti, volti televisivi o da copertine patinate, e così via).
 
Il tacito accordo, quanto meno iniziale, di un simile prodotto televisivo si poggiava sulla convinzione (percezione) che non c’è nulla di più oggettivo e reale delle immagini riprese direttamente a maggior ragione se in movimento (ipotizzando o meglio sottintendendo la sequenzialità e coerenza delle immagini che scorrono).
 
 
Tale accordo è evidentemente non solo fallace ma anche menzoniero per una serie di ragioni tecniche (in primis il montaggio di ogni singola puntata rispetto al registrato effettivo) quanto pratiche (stabilire quanto di ciò che viene ripreso è ‘spontaneo’, ‘onesto’ e ‘trasparente’ e quanto invece è stato anche solo in minima parte preparato a tavolino, in un qualche modo ‘scalettato’, non è facile).
 
Che si tratti, però, di narrazioni in realtà non è discutibile.
Al di là dell’eventualità che i ‘personaggi recitino a copione’ o meno, al di là dell’autenticità delle singole scene riprese; resta il montaggio che – da solo – è il mezzo a costruire le immagini della realtà poi diffuse e condivise. Le puntate sono narrazioni, propongono conflitti, risoluzioni, dialoghi, inquadrature ‘della’ realtà di chi ha lavorato alla trasmissione (dunque di un gruppo nutrito di persone, non soltanto i soggetti ripresi, ma anche i produttori, e il resto dello staff che contribuisce alla definizione e realizzazione del prodotto narrativo).
 
Rispetto alle considerazioni che fa Pinardi nel suo saggio, in questo tipo di prodotti narrativi è difficile non metterne in discussione l’onestà rispetto alle sequenze di fatti e accadimenti. Allo stesso tempo, però, non si può negare che questi prodotti in quanto tali sono coerenti con le aspettative del potenziale acquirente-fruitore (nessuno ha mai effettivamente affermato – nero su bianco, diciamo – che devono essere ‘veri’ nella declinazione di oggettivamente reali), raccontano storie, storie nettamente lontane dai contesti sociali più comuni italiani e non, quanto storie che miscelano i più ricercati ingredienti narrativi: drammi, colpi di scena, tematiche sociali attuali e dinamiche del vivere (aborti, malattie, abbandoni, matrimoni, tradimenti, fallimenti economici, nascere e morire, viaggi…), sono una sorta di evoluzione dei ‘fotoromanzi’, sono narrazioni dinamiche, imprevedibili proprio grazie al montaggio, il ‘modo’ in cui vengono narrate fa la differenza, li rende prodotti specifici.
 
Uno dei canali sul satellitare che più propone simili prodotti narrativi in Italia è E! sebbene anche altri canali in passato quanto attualmente (e specialmente nel periodo estivo) hanno inserito nei propri palinsesti trasmissioni basate sul falso misunderstanding della realtà registrata-narrazione entro dinamiche specifiche (contrasti di famiglia, follie da single, drammi intimi, imprevisti luttuosi, scelte professionali, follie…).
 
Considerare ancora lo spettatore, dopo diversi anni di messe in onda, ingenuo e impreparato al punto da non considerare gli ‘episodi’ per ciò che sono - puntate di una trasmissione televisiva - non pare sensato (quanto meno nella maggrio parte dei casi).
 
L’utopia dell’oggettiva ‘real life’ registrata e sottoposta allo spettatore suona credibile se, per l’appunto, ci si crede, se l’accordo tacito tra emittente e destinataria si risolve nel considerare ‘reale’ ciò che viene montato nei singoli episodi. Un effetto simile a ogni altra narrazione contemporanea basata su persone che sono anche personaggi, contesti che sono luoghi precisi e plot che sono trame verosimili potenzialmente adattabili a molti vivere ma soprattutto complessi al punto da trasportare lo spettatore in ‘altri mondi’, in quegli ‘altrove’ che le narrazioni di finzione promettono da sempre.

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