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Bonus 80 euro, riforma province e Jobs Act | E’ l’amministrazione, stupidi

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare,

le elucubrazioni sulle ragioni dell’esito elettorale, incentrate sulla personalità di questo o quel leader, piuttosto che sulla crisi epocale di schieramenti, sono molto interessanti, ma probabilmente alla base appunto di quanto è successo non possono non prendersi in serissima considerazione gli esiti di circa 6 anni di amministrazione. Il che potrebbe dimostrare la non necessaria rilevanza della persona posta a capo di un governo, di un partito o di una coalizione, ma, piuttosto, degli esiti delle scelte operative.

Gli scorsi anni di legislatura possono essere valutati in particolare sulla base dei risultati di tre scelte di governo simboliche, cartina di tornasole dell’efficacia, in particolare in termini di ricadute nei confronti di un’economia fiaccata, con cittadini ed imprese in evidenti difficoltà.

La prima consiste nei bonus, il cui “principe” è la celeberrima norma degli 80 euro. L’efficacia di questa manovra è quanto meno contrastata, tra giudizi che oscillano dalla sua quasi totale inefficacia ai fini della crescita dei consumi privati, alla valutazione di effetti comunque parziali.

Una misura che costa 10 miliardi l’anno, gran parte dei quali finanziati a deficit grazie alla “flessibilità”, in ogni caso, difficilmente può considerarsi davvero efficace se non si ha una valutazione immediata, chiara e trasparente del suo impatto.

È noto che, comunque, il bonus non si è esteso alle situazioni di reale povertà, ma ha in parte incrementato le disponibilità economiche di chi già possedeva redditi.

Corollario: molti esaltano l’iniziativa anti povertà consistente nel REI (reddito di inclusione). Il progetto è finanziato per 1,7 miliardi. Non sarebbe stato male, forse, destinare i 10 miliardi invece che a bonus per chi lavora, ad interventi più estesi per le situazioni di vero disagio.

Sta di fatto che sicuramente gran parte dei cittadini non ha percepito i bonus come miglioramento significativo della propria condizione, almeno stando ai risultati del 4 marzo 2018.

Una seconda azione di governo molto discutibile e più evidentemente fallimentare è stata la riforma delle province. Avviata in fretta e furia per sottrarre al M5S la paternità dell’iniziativa, è stata approvata “in attesa” della fallita riforma della Costituzione. Ha gettato nel caos per due anni le altre amministrazioni, comportando un blocco delle assunzioni quasi totale, ma soprattutto non ha generato nessun risparmio.

La manovra di bilancio del 2015 ha sottratto ai bilanci delle province (solo l’1% circa della spesa pubblica) 3 miliardi, che, con vari espedienti, di fatto, sono stati restituiti. Nessun cittadino italiano ha visto ridursi nemmeno di un centesimo il proprio prelievo fiscale, perché i 3 miliardi non sono stati “tagliati”: le province hanno continuato a riscuotere le tasse, ma riversando quelle somme allo Stato, per le spese delle amministrazioni statali.

Molti cittadini, però, hanno visto le strade provinciali riempirsi di buche, ponti crollare, scuole in totale decadenza. E nel 2018 il processo di riallocazione delle funzioni provinciali non è ancora finito: la trasmigrazione dei 20.000 dipendenti provinciali verso altre amministrazioni è stata un caos.

Una terza misura non ha fruttato i risultati sperati: si tratta del Jobs Act. Pur vero che, anche a fronte di una ripresa verificatasi a partire dalla seconda metà del 2016, i contratti di lavoro sono aumentati e il numero degli occupati aumentato. Tuttavia, il Jobs Act non ha potuto garantire alcuna “qualità” del lavoro. Non sul piano contrattuale: la liberalizzazione del tempo determinato, per altro decisa prima ancora del Jobs Act dal decreto Poletti, ha inevitabilmente determinato l’esplosione dei contratti a termine che soverchiano le assunzioni a tempo indeterminato (spinte solo per breve tempo del 2015 da altri bonus, quelli per le aziende). Non sul piano del reddito: a fronte della risalita dell’occupazione, le ore lavorate sono poche, tra gli occupati l’Istat computa anche l’altro boom dei tirocini pagati con borse lavoro molto “leggere”(tra i 300 e i 500 euro), il lavoro continua in gran parte ad essere di bassa qualificazione e bassa produttività, con simmetriche basse retribuzioni.

 

Non poteva certo essere una normativa principalmente incentrata sul diritto del lavoro ad incidere direttamente sull’economia né ad imporre ad imprese incerte, proprio per la bassa domanda e le prospettive di crescita ancora non rassicuranti, di considerare davvero il tempo indeterminato come la forma normale e ordinaria di assunzione.

Il decreto Poletti, non si sa quanto volontariamente, ha forse centrato: in effetti, le nuove condizioni di lavoro rendono tempo determinato e flessibilità connaturati alle nuove modalità di produzione. La costituzione dell’Anpal e le nuove “politiche attive” avrebbero, allora, dovuto creare le condizioni per assicurare protezione al reddito e alla capacità lavorativa anche nella transizione tra un lavoro e l’altro. Ma l’Anpal per ora resta una macchina che scalda i motori mentre il disastro delle province, prima competenti per le politiche del lavoro, e la stessa bocciatura della riforma della Costituzione, hanno contribuito ad impedire qualsiasi ripensamento efficace delle politiche attive: gli uffici di collocamento italiani sono retti da poco più di 6.000 dipendenti, a fronte dei quasi 100.000 della Germania, mentre strumenti come l’assegno di ricollocazione sono stati una débacle.

C’è, poi, una quarta misura simbolica dell’azione di governo, che probabilmente in molti non sono nemmeno stati in grado di considerare al momento dell’apposizione del voto sulla scheda: le clausole di salvaguardia, ovvero gli incrementi dell’Iva per circa 30 miliardi in 2 anni, proposti alle istituzioni europee come garanzia che le entrate italiane possano fare fronte ai maggiori deficit ed ai tanti bonus in questi anni attivati, grazie alla “flessibilità”. Gli aumenti sono fin qui stati continuamente rinviati dal 2013 ad oggi. Ogni manovra finanziaria, che sia mirata alla flat tax invece che al reddito di cittadinanza, che voglia correggere i bonus oppure rivedere il funzionamento della pubblica amministrazione e del mercato del lavoro, dovrà sempre partire dalla necessità di finanziare in qualche modo decine di miliardi per evitare gli incrementi Iva, vera eredità degli scorsi anni. Oppure, far scattare le clausole, col rischio di ripiombare nella recessione del 2012.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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