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Bersani e Monti: avendo ben presente l’Italia

I due, incontrandosi all’alba di mercoledì per porre le premesse ad un accordo post-elettorale, hanno dimostrato prima di tutto di possedere una sana dose di realismo: per formare un governo, infatti, dovranno trovare il modo di lavorare assieme, sempre che basti.

Un’ipotesi che farà gridare all’inciucio, non solo fuori dai loro partiti, ma che appare inevitabile, se si tiene conto di quanto valgano le loro forze e come queste siano le uniche ad avere salde radici dentro quello che un tempo si chiamava arco costituzionale. Pur con tutte le differenze, progressisti e moderati sono infatti schierati sul terreno comune che è stato fondamento della nostra democrazia; tra le loro posizioni, anche quando non sono vicine, è sempre possibile individuarne una intermedia: un punto tra liberalesimo e socialdemocrazia, se volete, su cui possono convergere. Un discorso che vale soprattutto sui temi economici e di politica estera, dove montiani e piddini, tutti europeisti senza esitazioni, condividono la volontà di far ripartire il Paese con le riforme necessarie, per quanto difficili, e non grazie a miracolosi tocchi di bacchetta magica.

L’Italia che si ritrova in Silvio Berlusconi è invece completamente differente. Reazionaria, e, anche se non apertamente antidemocratica, affascinata dall’idea dell’uomo forte. Lo stesso Berlusconi proclamò con fierezza la differenza “ontologica” del proprio elettorato; un giudizio su cui non si può che concordare, vedendo il tripudio sei suoi sostenitori mentre, quasi ottuagenario, è tornato ad essere protagonista unico della campagna elettorale del PdL, non da suo segretario o candidato alla presidenza del Consiglio, ma, di fatto, in veste di suo proprietario.

Dovrebbe bastare questo, con la concezione della vita pubblica che sottintende, a far di lui un avversario sia di Monti che di Bersani. A renderlo il più pericoloso, come i due si sono ben resi conto, sono tanto la sua capacità di comunicazione quanto il suo avatar politico. 

Non solo Berlusconi controlla numerosi quotidiani ed è il monopolista delle televisioni (e si spera che finalmente si trovi il coraggio di fare una legge antitrust in questo campo); soprattutto domina le seconde, siano o no sue, con il proprio talento d’intrattenitore e la conoscenza dei loro meccanismi. Non è uno straordinario oratore, capace di convincere gli altri delle proprie idee, ma ha saputo conquistarsi un pubblico che gli si mantiene fedele; italiani cui dice, sia vero o no, ci creda o no, semplicemente quel che questi vogliono ascoltare.

Un populista? Certo. Un concorrente di Grillo e Bossi? Poco del secondo e per nulla del primo; assai più di Monti e dello stesso Bersani. Di lui dicono che si rivolga alla pancia del paese. È vero, ma solo se si pensa ad una pancia ancora piena e, tutto sommato, soddisfatta. Quali che siano le sue idee sullo stato, Berlusconi non si presenta come un rivoluzionario, ma come un garante della continuità che promette a chi, dopo tutto, ancora quietamente vive, dell’altro quieto vivere. Non è un tiranno, e forse non ha mai aspirato ad esserlo, ma la sua posizione sociale affatto unica e la sua età fanno sì che anche per lui, come per il vecchio Breznev cui si riferiva Iosif Brodskij nel suo breve saggio “Sulla tirannia” del 1980, “il tempo che gli altri dedicano a pensare all’anima sia sempre assorbito da manovre miranti a mantenere lo status quo”.

Batterlo alle elezioni è possibile, anche se non scontato; significa convincere qualche punto percentuale d’italiani a non lasciarsi sedurre dalle sirene di un immobilismo dalle conseguenze, a questo punto, catastrofiche. Un risultato che forse (spero certe decisioni siano state prese a ragion veduta) moderati e progressisti possono sperare di raggiungere più facilmente correndo ognuno per proprio conto.

Nello stesso saggio (è tra quelli riuniti in “Il canto del pendolo”, se qualcuno volesse leggerlo) Brodskij afferma che il tiranno, solo al vertice, è solo l’elemento più visibile di una piramide la cui stabilità è garantita dall’ampiezza della base. Smuovere la base del berlusconismo nel paese, amplissima, costituita anche da molti che berlusconiani neppure sospettano d’essere, resterà la sfida anche se Berlusconi dovesse perdere le elezioni. Una condizione necessaria quanto il disporre di una maggioranza parlamentare, se si vorrà governare davvero ed aprire al cambiamento la nostra società rattrappita, prima ancora che la nostra esangue economia. Un risultato, l’unico per cui valga la pena di lottare, per cui le forze del compianto arco costituzionale, nel paese prima che in Parlamento, potrebbero, nella migliore delle ipotesi, rivelarsi a malapena sufficienti.

Chi avesse dubbi su questo, tra i moderati ed i riformisti, sta probabilmente pensando al paese che vorrebbe, ad una Svizzera o ad una Scandinavia italiane. Lodevoli obiettivi, ma ben poco a che vedere con l’Italia senzaltro.

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