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Autismo: giornata mondiale della consapevolezza

Dalla prima descrizione dei bambini autistici, nel 1943 a oggi.

di Milly Barba 

È il 1943 quando Leo Kanner, psichiatra austriaco naturalizzato statunitense, docente alla Johns Hopkins University School of Medicine di Baltimora (Stati Uniti), descrive per la prima volta in un articolo dal titolo Disturbi autistici del contatto affettivo il comportamento di 11 bambini ricoverati nella sua clinica. I piccoli pazienti apparivano disinteressati alle persone e per lo più concentrati o ossessionati dagli oggetti; inoltre, manifestavano comportamenti ridondanti e reazioni incontrollate di fronte a cambiamenti improvvisi della propria routine quotidiana. Kanner, mutuando il termine adottato nel 1911 dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler per descrivere uno stato di “evasione dalla realtà accompagnata dal predominio relativo o assoluto della vita interiore” riscontrato nell’adulto e identificato come sintomo secondario della schizofrenia, definì la condizione dei piccoli pazienti come autismo infantile.

L’articolo di Kanner segnò a lungo la storia della medicina, sebbene lo scienziato fosse stato anticipato dal pediatra austriaco Hans Asperger e dalle sue teorie sulla personalità autistica, rimaste nell’ombra fino al 1981, come illustrato qui. Kanner individuò tra caratteristiche principali dell’autismo infantile l’estrema solitudine – i bambini sembravano ignorare ciò che accadeva nell’ambiente circostante, senza sviluppare relazioni significative e isolandosi; la difficoltà di linguaggio; il desiderio ossessivo per il mantenimento di una determinata condizione con comportamenti ripetitivi, stereotipati e angosciosi di fronte al cambiamento; un buon potenziale cognitivo e un normale sviluppo fisico. Lo scienziato ipotizzò, dunque, che i bambini avessero una difficoltà emotiva innata a intrattenere contatti con le persone. Tuttavia, in seguito, a causa di deduzioni errate, Kanner si focalizzò sul rapporto madre-figlio e sull’inadeguatezza delle cure parentali, sostenendo che l’incapacità della madre (definita madre-frigorifero) o dei genitori di creare un particolare clima affettivo impedisse all’io del bambino di sviluppare le sue capacità di esteriorizzare e domare le pulsioni.

Oggi sappiamo che l’origine dell’autismo è genetica e che all’insorgenza del disturbo, come emerso da molteplici studi, contribuiscono anche fattori ambientali e l’esposizione ad agenti inquinanti durante la gravidanza. Altri elementi di rischio sono l’età avanzata dei genitori (in particolare, del papà), il basso peso alla nascita o la forte prematurità del feto.

Classificato nel 2007 dall’International Classification of Diseases tra le “sindromi da alterazione globale dello sviluppo psicologico” e, nel 2002, dal Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders (DSM-IV) tra i Disturbi Pervasivi dello Sviluppo, l’autismo è annoverato dal DSM-V tra i “Disturbi dello Spettro autistico”, comprendenti anche la Sindrome di Asperger e il Disturbo Pervasivo dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato (DPS-NAS). Ha esordio nei primi 3 anni di vita ed è caratterizzato da una triade di sintomi che coinvolgono l’ambito sociale (compromissione, ritardo o atipicità dello sviluppo delle competenze sociali), comunicativo (compromissione e atipicità del linguaggio e della comunicazione, verbale e non verbale) e comportamentale (presenza di comportamenti ritualistici o ripetitivi). Nell’autismo grave è frequente l’associazione con il ritardo mentale, l’epilessia e i disturbi del sonno. A volte il disturbo è associato anche a sindromi o malattie rare a base genetica che compromettono la normale funzionalità del Sistema nervoso centrale, quali la sclerosi tuberosa, la sindrome di Rett, la sindrome di Down, la sindrome di Landau-Kleffner, la fenilchetonuria e la sindrome dell’X fragile. In questi si parla di autismo sindromico.

Si stima che nel mondo un bambino ogni 100 – negli Stati Uniti 1 ogni 68 – sia interessato da un disturbo dello spettro autistico e il fenomeno è in crescita. Sebbene gli studi in corso siano molti e riguardino sia le possibili terapie sia la diagnosi precoce del disturbo, a oggi non esiste ancora una cura che consenta di guarire dall’autismo. Le terapie più efficaci tuttora in uso sono di tipo comportamentale, come il parent training, in grado di migliorare significativamente la sintomatologia e la qualità di vita del bambino e della famiglia. Il termine parent training identifica due tipologie distinte di intervento: il sostegno genitoriale e la terapia mediata dai genitori. Nel primo caso, il bambino non partecipa agli incontri tra genitori e terapeuta, poiché orientati al sostegno emotivo dei genitori e al trasferimento di informazioni utili. Nel secondo caso, gli incontri coinvolgono l’intero nucleo familiare. Tra i centri di riferimento a livello nazionale per questo tipo di terapia vi è l’Ospedale Bambin Gesù di Romadove si effettua una “terapia cooperativa mediata dai genitori” che si rivolge, infatti, a tutto il nucleo familiare e coinvolge il bambino a partire dall’età prescolare. Il percorso dura 6 mesi: si inizia con una seduta e settimana e si conclude con incontri a cadenza mensile. Il trattamento consente di costruire, in un arco limitato di tempo, un’interazione tra genitori e figlio, favorendo lo sviluppo delle competenze sociali e comunicative nel bambino, aumentando il senso di autoefficacia dei genitori e riducendo lo stress. Tra le associazioni impegnate nella promozioni di corsi dedicati al parent training anche Spazio Nautilus OnlusProgettoautismo FVGAssociazione dalla Luna e Per noi autistici.

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