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Atlante e Salva-banche: la leva di debito e il cielo del credito

Il nuovo veicolo destinato a portare sulle proprie spalle il cielo del credito italiano sta vedendo la luce. Si chiamerà, piuttosto opportunamente, Atlante, sarà la risposta di sistema ad un sistema che rischia di cadere a pezzi. Parte con l’ambizione di generare effetti benefici e sinergici sul costo del capitale delle banche ma rischia, se utilizzato impropriamente, solo di diffondere le tossine anche alle parti sane dell’organismo della finanza italiana.

Il capitale iniziale di cui Atlante sarà dotato dovrebbe essere dell’ordine di 5 miliardi di euro. Che sono del tutto insufficienti per agire su quella che dovrebbe essere la leva per arrestare la diffusione dell’ammaloramento nel sistema bancario: le sofferenze. Che oggi ammontano, al netto delle rettifiche già iscritte a bilancio, a poco più di 80 miliardi di euro. Ovvio che il veicolo non dovrà asportarle tutte (pare solo le tranche mezzanine delle cartolarizzazioni previste dalla garanzia pubblica) ma resta il punto dirimente: a quale prezzo? In media le sofferenze sono coperte al 56% del valore nominale dei crediti sottostanti. Per evitare alle banche di incassare perdite da realizzo che ne eroderebbero il capitale, bisogna chiedersi se un prezzo medio di cessione a 44 possa essere considerato realistico.

Si dice che sinora le banche non hanno ceduto le proprie sofferenze perché le società specializzate avrebbero offerto troppo poco, puntando ad elevati tassi di rendimento dell’investimento. “Sulle sofferenze serve più tempo, e molta pazienza”, è il ritornello delle banche e della politica. Indubbio che il tempo giochi un ruolo: se il recupero del credito in sofferenza avvenisse in tempi ridotti, grazie ad una più efficiente giustizia civile, il valore delle sofferenze aumenterebbe.
 
Ma non scordiamo che dietro ai prestiti in sofferenza ci sono debitori. Si potrebbe anche legiferare che, se hai un mutuo e non paghi poche rate, perdi la casa subito e finita lì (ricorda qualcosa?). Ma ci sarebbe un ovvio impatto sociale. Per evitare che un credito incagliato si trasformi in sofferenza serve rapidità di azione a vantaggio del creditore. Ma spesso tale rapidità di azione finirebbe con l’ammazzare il debitore, ad esempio nel caso di aziende affidate. Quindi, anche se la politica e i media ritengono che il proiettile d’argento siano i tempi di recupero del credito, non scordiamo che dietro questi tempi ci sono aziende e famiglie.

Ma c’è anche un altro problema, che poi è sempre quello: quante delle sofferenze sono assistite da garanzie, e quante non lo sono? Se abbiamo tra le mani crediti non garantiti erogati a famiglie ed aziende, queste ultime magari già fallite, quanto possiamo recuperare? In breve, si fa presto a dire che “serve tempo”, ed è certamente vero. Ma se i prestiti in sofferenza non hanno un “substrato” recuperabile, il loro valore resta prossimo allo zero. E questo ci riporta ad Atlante: se pagherà troppo le sofferenze, finirà col realizzare una perdita che intaccherà anche il suo capitale, e dovrà essere ricapitalizzato dai suoi azionisti. Anche ammettendo che il nuovo veicolo non sia “esoso” (ma esiste comunque una cosa chiamata rischio-rendimento), e quindi si accontenti di rendimenti molto bassi (cioè “politici”) sulle sofferenze acquisite, se invece che utili realizzasse perdite, il problema sarebbe solo spinto più in là. Inoltre, resta da valutare il grado di leva finanziaria necessario ad Atlante. Con 5 miliardi di mezzi propri quanto debito si deve aggiungere, per portarsi a casa un importo significativo di sofferenze? Ve lo diciamo noi, ne serve molto. Che rating avrà il debito di Atlante, quindi? Chi lo sottoscriverà? Le stesse banche a cui Atlante comprerà le sofferenze? Il rischio di intossicare un sistema già intossicato usando scatole cinesi è non trascurabile.

Scendiamo nel dettaglio tecnico: Atlante comprerà le tranche più junior delle cartolarizzazioni delle sofferenze, dato che le tranche senior dovrebbero essere piazzate sul mercato attraverso la garanzia pubblica data dalle Gacs, che tuttavia ad oggi non è stata ancora attivata, forse perché preliminarmente ad essa serve proprio che la banca collochi la tranche mezzanina. Ma quale sarà il prezzo a cui Atlante comprerà? Dipende da banca a banca, cioè dalla qualità delle sofferenze di ogni istituto. Se tale qualità è bassa, cioè il valore di recupero atteso è basso, la tranche mezzanina sarà di grande dimensione e dovrà rendere necessariamente molto. Quindi si torna al via. A meno che Atlante non decida di sussidiare l’acquisto, accontentandosi di un rendimento inferiore. Cioè ponga le basi per il suo successivo dissesto, nel momento in cui su quelle tranche realizzerà delle perdite anziché degli utili. Se non c’è mercato, ci sono solo perdite attese. Ma forse Atlante seppellirà le Gacs e procederà ad acquistare pacchetti di sofferenze non cartolarizzate.

Si dice in queste ore che, se la rimozione delle sofferenze avrà successo, il costo del capitale proprio delle banche scenderà di molto, e forse che gli aumenti di capitale potranno avvenire senza ricorrere ad una rete di protezione. Può essere, ma tutto dipenderà dal modo in cui l’intera costruzione verrà gestita. Atlante potrà effettuare aumenti di capitale riservati, cioè come piazzamenti privati; potrà anche acquistare strumenti di capitale delle banche, come gli Additional Tier 1, i cosiddetti CoCo bonds, che sono ibridi tra debito e capitale. I suoi azionisti parteciperanno al suo capitale ciascuno in misura inferiore al 20% per non consolidare nei propri conti le banche di cui il fondo divenisse controllante, dopo gli aumenti di capitale. E sin qui, ha senso. Ma la forma non basta, serve pure la sostanza. Che governance avranno le banche che finiranno con l’avere Atlante come proprietario? E Atlante diverrà il guardiano di un’oligarchia asserragliata in un fortino che sta cadendo a pezzi?

Le fondazioni bancarie, a cui per lustri è stato detto che dovevano liberarsi delle partecipazioni bancarie e diversificare il portafoglio, rischiano di (ri)trovarsi a possedere un portafoglio di titoli bancari. Il tempo dirà se questa “audace” (o disperata) operazione di ingegneria finanziaria di sistema contribuirà a risolvere il problema o accelererà l’implosione del medesimo. Resta il punto di base: il tempo delle scorciatoie è terminato, in Italia. E non è colpa dei tedeschi o di Bruxelles.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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