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Atei sempre più a rischio: il Rapporto 2017 sulla libertà di pensiero nel mondo

In almeno 85 Paesi al mondo — compresa l’Italia — atei e agnostici subiscono gravi discriminazioni: in 30 (perlopiù Stati islamici o con una popolazione a maggioranza musulmana) le discriminazioni sono gravissime e in una decina l’apostasia è punita con la pena di morte.

È questo il quadro che emerge dal Freethought Report 2017, il rapporto sulla libertà di pensiero nel mondo, promosso dall’International Humanist and Ethical Union (Iheu, di cui l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti fa parte) e presentato oggi al Parlamento europeo.

Nel corso del 2017 si sono registrati nuovi casi di atei e agnostici attivamente perseguitati in almeno 7 Paesi: omicidi di umanisti o atei in Pakistan (Mashal Khan), India (H Farook) e Maldive (Yameen Rasheed); nuove ondate di incitamento all’odio o alla violenza in Malesia, Mauritania e ancora Pakistan; nuove sentenze di pena di morte per apostasia (dall’islam all’ateismo) in Sudan (ai danni di Mohamed Al-Dosogy) e Arabia saudita, dove ai prigionieri di coscienza Raif Badawi, Waleed Abulkhair e Ashraf Fayadh si aggiunge Ahmad Al-Shamri, il quale ha perso l’appello finale contro la pena di morte comminatagli nel 2015 per apostasia per aver postato video “sacrileghi” su Facebook.

«Questi particolari sviluppi in questi 7 Paesi sono ovviamente solo la punta dell’iceberg della vasta macchina di discriminazione contro atei e agnostici che esiste in quasi tutti i Paesi del mondo», spiega Bob Churchill, direttore delle comunicazione dell’Iheu, nell’introduzione al dossier. Sono infatti 30 i Paesi in cui almeno uno dei 60 indicatori utilizzati per redigere il Rapporto registra violazioni gravissime (di solito più di uno). Si tratta di: Afghanistan, Cina, Bahrain, Bangladesh, Brunei Darussalam, Comore, Egitto, Eritrea, Etiopia, Gambia, Indonesia, Iran, Iraq, Giordania, Kuwait, Libia, Malesia, Maldive, Mauritania, Marocco, Nigeria, Corea del Nord, Pakistan, Qatar, Arabia saudita, Somalia, Siria, Sudan, Emirati Arabi Uniti, Yemen. In 12 di questi Paesi (Afghanistan, Iran, Malesia, Maldive, Mauritania, Nigeria, Qatar, Arabia Saudita, Somalia, Sudan, Emirati Arabi Uniti,Yemen) l’apostasia può essere punita con la condanna a morte. Di questi, cinque (Afghanistan, Iran, Nigeria, Arabia Saudita e Somalia), cui va aggiunto il Pakistan, prevedono la pena di morte anche per il reato di blasfemia.

55 sono poi i Paesi che si piazzano nella seconda fascia (violazioni gravi, di solito riguardanti il controllo religioso sulle leggi riguardanti la famiglia o questioni “morali” e la punibilità della blasfemia), tra cui anche diversi Paesi europei: Bosnia ed Erzegovina, Croazia, Danimarca, Germania, Grecia, Malta, Macedonia, Ungheria, Italia, Polonia, Russia.

«La sezione del Rapporto dedicata all’Italia — sottolinea Adele Orioli, portavoce dell’Uaar — delinea un nutrito elenco di criticità, da sempre denunciate dall’Uaar: dall’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, con insegnanti scelti dalla Chiesa ma pagati dallo Stato, al sistema dell’8 per mille; dal finanziamento pubblico alle scuole cattoliche alla straripante presenza della Chiesa cattolica nel palinsesto televisivo. E anche l’Italia è tra i Paesi che puniscono la blasfemia (art. 724 codice penale): non con la pena di morte, certo, ma è solo dal 1999 che il reato è stato depenalizzato e ridotto a “illecito amministrativo”. Inoltre se bestemmi via social sei passibile di istigazione a delinquere, reato vero e proprio».

«Il Rapporto mette in luce come i diritti umani tendano a sostenersi a vicenda», sottolinea Andrew Copson, presidente dell’Iheu: «Dove atei e agnostici sono perseguitati, di solito lo sono anche le minoranza religiose. Non è una coincidenza. Se violi un diritto, non solo è più probabile che ne violerai anche altri ma che eroderai il bene comune e renderai più difficile la conquista di nuovi diritti. I diritti umani sono infatti interconnessi e indivisibili. Il consenso post bellico sui diritti umani sembra sotto pressione come mai prima», conclude Copson: «Ed è dunque il momento in cui più è necessario difenderlo».

Questo articolo è stato pubblicato qui

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