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Armonizzati e smemorati

Ottoemezzo del 10 novembre, Massimo D’Alema si esibisce in una delle sue caratteristiche risate con ghigno beffardo incorporato per spiegare al colto ed all’inclita che in Europa serve la famigerata "armonizzazione fiscale". In realtà, come stiamo per constatare, servirebbe preliminarmente capire le cose. In alternativa, ove le cose si capissero, servirebbe minore malizia. O forse era malafede?

Si parla del caso-Juncker (ammesso e non concesso che un simile caso esista, cosa su cui chi scrive ha molti dubbi), e D’Alema ci informa che "la concorrenza fiscale all’interno dell’area dell’euro è qualcosa di non accettabile", e quindi serve la famosa “politica di armonizzazione fiscale”:

A parte la perla di Juncker conservatore ma anche liberale (termini che evidentemente per D’Alema sono sinonimi: contento lui, lo facevamo meno ideologicamente rozzo), e "che sostiene questa idea di un mercato senza regole", all’ex premier che lodava i "capitani coraggiosi" che avevano scalato Telecom Italia utilizzando una holding basata in Lussemburgo ma non troppo (e l’orrido Juncker all’epoca era già nelle stanze dei bottoni del Granducato) pare sfuggire che il problema non è il livello di aliquote fiscali sulle imprese, in alcuni paesi più basso che altrove, ma la presenza di discriminazioni a favore di alcune imprese (estere) rispetto a quelle nazionali. Se un’azienda irlandese paga al fisco il 12,5% ed una non irlandese, magari priva di stabile organizzazione in Irlanda, riesce a spuntare l’1 o il 2% a seguito di accordi ad hoc (tax ruling), quello si configura, correttamente, come aiuto di stato, e come tale va perseguito in sede comunitaria. Ma questo non significa che l’aliquota statutaria irlandese al 12,5% sia “"qualcosa di non accettabile", ove valesse per tutte le aziende stabilmente (e realmente) operanti in Irlanda. Distinzione non banale, ma che D’Alema tenta di ignorare per far passare ben altro messaggio.

Che poi, per i nostri statisti, l'"armonizzazione fiscale" è sempre e comunque quella all’insù. Vogliamo quindi arrivare a far pagare alle piccole e medie imprese dell’Eurozona il tax rate complessivo del 65% pagato dalle nostre? In quel caso le nostre pulsioni di giustizia fiscale transnazionale ed il nostro benessere sarebbero soddisfatti? E già che stiamo parlando di level playing field, vogliamo estenderlo oltre l’aspetto fiscale?

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