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Annientamento del Tibet: e se succedesse a noi?

Da 65 anni è in atto una distruzione legalizzata lenta e inarrestabile del Tibet e dell’antichissima cultura tibetana. I profughi tibetani oggi sono svenduti in nome dell’economia e noi restiamo immobili a guardare l’annientamento di un popolo.

Di Andrea Grieco

Immaginate di essere a casa vostra, nel vostro tranquillo paese, nel vostro luogo di culto, di scambiare due parole con il vostro vicino, magari un monaco. E immaginate di punto in bianco di non avere più niente di tutto ciò: il vostro vicino non ci sarà più, si autoimmolerà per la “causa”, la vostra casa sarà messa a soqquadro e privata dei simboli della vostra religione, quello che era il vostro paese tranquillo si trasformerà in un covo di militari, il vostro luogo di culto sarà oggetto di “rettifica e pulizia”, in breve sarà distrutto.

Immaginare questi scenari apocalittici, purtroppo, oggi non è così difficile: il Tibet ne è l’esempio. Sta succedendo oggi e sta succedendo sotto i nostri occhi, con la scusante della civiltà. Le offensive dell’invasore cinese in quello che resta della Regione Autonoma del Tibet sono sempre più crude e ormai tendono palesemente all’annullamento della popolazione tibetana, con tutto il suo apparato magnifico di usi e costumi. Ultima in questo senso è la campagna di “rettifica e pulizia” dei luoghi di culto che prevede la distruzione di edifici religiosi e di luoghi di preghiera buddisti “di costruzione troppo recente”. Le autorità hanno proibito ai monasteri di accettare giovani che non hanno ancora 12 anni, e le centinaia di bambini che come tradizione stanno studiando nei luoghi di culto “devono tornare a casa, oppure essere deportati con la forza”.

Le date fissate non sono casuali. Dalla contea al centro della campagna sono infatti partiti diversi monaci che si sono poi autoimmolati nella capitale Lhasa: i suicidi con il fuoco hanno avuto un’impennata proprio dal 2010. Gli stupa sono “edifici spirituali” tipici del buddismo, di solito destinati alla conservazione delle reliquie dei santi e dei martiri buddisti, e il governo ritiene che all’interno dei nuovi luoghi di culto siano conservati i resti di coloro che si sono uccisi contro la dominazione di Pechino. Per questo li vuole vedere distrutti, prima che possano divenire simboli della resistenza. Nel mirino della campagna è finita anche l’educazione tradizionale tibetana. Il governo ha infatti ordinato che tutti i monaci con meno di 12 anni tornino a casa altrimenti verranno espulsi con la forza dai monasteri dove vivono. Nella cultura buddista è tradizione mandare i bambini presso i monaci, affinché ricevano un’istruzione di base: una volta raggiunta la pubertà decideranno da soli se rimanere e sposare la vita monastica o tornare alla famiglia di origine.

Dinanzi a questa campagna di distruzione che ha ormai disossato il Tibet, i più forti e ostinati combattono per salvare la propria cultura e la propria terra. La lista dei “martiri della luce” (che si suicidano dandosi fuoco, con un atto che simboleggia in forma estrema il tentativo di portare alla luce la drammatica situazione che il popolo tibetano vive) cresce enormemente di giorno in giorno; ultimo in ordine di tempo il padre di famiglia Kunchok, che è sopravvissuto al fuoco, diversamente dallo studente ventiduenne deceduto il 17 settembre scorso.

I più deboli invece (donne, anziani e bambini), che rischiano la vita e le torture anche se semplicemente sorpresi a parlare in tibetano o a praticare la propria religione, o se in possesso di una immagine del Dalai Lama, si mettono in salvo e acquistano lo status di rifugiati politici; o meglio si mettevano in salvo. Oggi la forza del danaro ha vinto ancora a spese della vita di milioni di tibetani. Un genocidio legalizzato organizzato dall’invasore cinese che ha convinto il governo nepalese a negare i documenti e persino lo status di “rifugiato politico” ai tibetani che arrivano nel paese dalla Cina.

Nonostante Kathmandu sia stata per decenni il tradizionale “corridoio” verso Dharamsala – città indiana sede del governo tibetano in esilio e dimora del Dalai Lama. Il governo cinese ha esercitato forti pressioni su quello nepalese per fermare questa pratica. Secondo Pechino, non si possono considerare rifugiati politici perché in Tibet non c’è repressione religiosa o etnica. La Cina vuole anche che il Nepal rimandi indietro coloro che chiedono accoglienza. Secondo diversi attivisti per i diritti umani, la questione è puramente economica. Al momento Kathmandu sta portando avanti una politica di riavvicinamento alla Cina dopo anni di cooperazione con l’India e non vuole irritare i nuovi possibili partner. Tuttavia, la situazione dei tibetani in Nepal e questa decisione del governo hanno provocato lo sdegno della società civile.

E noi? Cosa facciamo noi? Restiamo a guardare, interverremo quando sarà troppo tardi, quando l’estirpazione della cultura tibetana si sarà già realizzata. Noi restiamo nel nostro paese tranquilli, dediti alle nostre attività, parliamo con i nostri vicini, professiamo la religione che vogliamo: siamo liberi, proprio come lo erano i tibetani fino a 65 anni fa, prima dell’invasione cinese. La domanda è: e se succedesse a noi? E se tutti ci abbandonassero come sta accadendo per il Tibet?

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.57) 15 novembre 2014 20:54

    Purtroppo in Tibet non c’è il petrolio....diversamente tutto l’Occidente sarebbe intervenuto

  • Di (---.---.---.116) 17 novembre 2014 22:27
    Questo articolo, oltre ad essere fazioso, è pieno di falsità. Non è vero che in Tibet si corre il rischio di essere arrestati se si parla il tibetano. Il Governo Cinese al contrario ha varato diverse leggi per proteggere la lingua tibetana, che viene obbligatoriamente insegnata nelle scuole (insieme al cinese), oltre che ovviamente nei corsi di tibetologia.
    L’insegnamento del cinese, affiancato a quello del tibetano, permette agli alunni di inserirsi in maniera proficua nel mondo del lavoro. Gli appartenenti alle minoranze etniche poi hanno l’accesso alle scuole completamente gratuito, essendo i loro studi finanziati da Pechino. A questo si aggiungono tutta una serie di benefici che la Cina ha portato alla regione tibetana, benefici praticamente a senso unico essendo il Tibet una regione altamente improduttiva che può andare avanti, nel mondo moderno, solo grazie ai soldi del Governo Centrale. Senza la Cina in Tibet ora come ora non ci sarebbero istruzione, scuole, strade e ospedali. Chiamare "invasione" la liberazione pacifica del Tibet è poi davvero discutibile, essendo il Tibet un protettorato cinese da secoli. Ciò che è stato scritto in questo articolo in merito alla distruzione di nuovi monumenti religiosi e all’espulsione dai monasteri dei monaci inferiori ai 12 anni (che comunque sarebbe un bene che restassero assieme ai propri genitori a prescindere, da un punto di vista pedagogico), avete omesso di scrivere che è accaduto esclusivamente in una provincia molto ristretta del Tibet, come reazione ad alcuni gruppi separatisti che usavano i monasteri di questa regione come roccaforti della propria battaglia politica. Si è trattato di un fenomeno estremamente limitato e marginale, prontamente strumentalizzato dalla stampa occidentale e dal governo tibetano in esilio. In realtà la religione tibetana, quando non nasconde insidie politiche, non viene affatto perseguitata. Al contrario, molti monasteri sono stati ricostruiti, anch’essi, proprio grazie ai soldi dei cinesi.

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