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Anni di Piombo, parte seconda?

Da qualche settimana siamo entrati ufficialmente nella cosiddetta “pausa estiva”, e mai come in questo periodo dell’anno nelle rubriche politiche si parlerà di tutto tranne che di politica. Le foto di Fassino al mare, se proprio ci va male, oppure, se saremo più fortunati, quelle della Carfagna. O ancora la candidatura di Beppe Grillo alla segretaria del PD. Boutades estive, insomma.

Potremo al massimo sperare in qualche strascico di commento sul G8, come se nessuno avesse capito che ogni parola spesa al riguardo è meno di inutile: se in questo mondo esiste qualcosa di antidemocratico e criptico, quello è il G8. Per chiunque non sia un burocrate d’alto bordo è impossibile andare oltre le frasi di circostanza e gli spiccioli ai bisognosi, per il semplice motivo che le riunioni importanti si tengono a porte chiuse, e nessun comune mortale ha la più pallida idea di quali siano stati i veri accordi presi. Ma, almeno per un po’, continuiamo pure a parlare del successo o del fallimento di Silvio Berlusconi che – bisognerà pur dargliene atto – stavolta non si è messo le dita nel naso davanti alle telecamere, né si è calato i calzoni davanti alle signore per fare due risate. Possiamo tirare il fiato.

Ma l’estate, con i suoi ombrelloni e i suoi servizi di Studio Aperto sul Billionaire, serve anche a dimenticare l’anno passato. In attesa di tornare, a settembre, alla routine.

Quest’anno sarà più difficile: le crisi economiche non conoscono pause estive, e un paese come l’Italia, dove il reddito familiare medio si aggira intorno ai 18’000 euro annui, non può permettersi di dormire.

Non nascondo di essere preoccupato, e dato che delle questioni più impellenti (tra le quali la lotta alla disoccupazione gioca un ruolo fondamentale) si trova qualche traccia sui media, oggi vorrei ampliare il campo d’analisi.

Personalmente non credo nella concezione hegeliana della storia, e sono propenso a pensare che gli eventi seguano piuttosto un moto circolare. È per questo che considero la Storia la una delle discipline più importanti: solo studiando le caratteristiche del tempo che stiamo vivendo potremo, grazie alla testimonianza di ciò che è successo nel passato, anticipare (o quantomeno tentare di intuire) gli sviluppi futuri, agendo di conseguenza.

Ma purtroppo il nostro è un paese che non ha memoria, un paese che all’interpretazione obiettiva delle cause e delle realtà storiche preferisce di gran lunga la polemica a seconda delle convenienze del momento. È questa mancanza di memoria che ci rende sempre impreparati di fronte alle situazioni, che uccide anche la nostra concezione di futuro, comprimendoci in un presente che – privato di un “prima” e di un “dopo”, sospeso nel tempo con un “Io” come unico punto di riferimento – non ha altro scopo se non quello della convenienza contingente.

E sempre a causa di questa incapacità a comprendere, prima ancora dell’incapacità a ricordare, ci stiamo (ci stanno) lanciando a tutto vapore contro un muro che, una volta aggirato, speravamo di non dover fronteggiare più.

Quel muro si chiama terrore, si chiama violenza. Si chiama “anni di piombo”. E io, pur sperando di sbagliarmi, lo vedo avvicinarsi come altri – spesso inascoltati – lo vedevano avvicinarsi all’inizio degli anni ’70.

Semplificando, si può dire che tre sono gli elementi fondamentali che in quegli anni hanno scatenato la frustrazione giovanile, dando di fatto inizio agli anni di piombo.

In primissimo luogo, la congiuntura economica sfavorevole: la crisi petrolifera degli anni ’70 causò un brusco arresto della crescita economica, con un conseguente aumento della disoccupazione e un impennata dell’indice dei prezzi al consumo assolutamente senza precedenti.

Secondariamente, la politica del compromesso storico promossa da Enrico Berlinguer, il quale tagliò fuori dal dibattito politico le forze più estremiste (e quindi più dinamiche) che andavano formandosi, spingendo un numero consistente di giovani verso la creazione di gruppi estranei e ostili alle istituzioni, percepite (non a torto) come non rappresentative.

E, per finire, scandali come i sospetti sul conto del Presidente della Repubblica, le ambiguità sul golpe Borghese e le ombre sugli attentati di Piazza Fontana e Gioia Tauro contribuirono a dare il colpo di grazia alla credibilità di istituzioni che già da tempo si erano scoperte a dir poco torbide.

Ho paura perché oggi le istituzioni hanno ormai rinunciato ad apparire rispettabili, perché questi politicanti stanno sacrificando la partecipazione popolare ai loro interessi corporativi, perché stiamo attraversando una crisi che (come tutte le crisi) lascerà sulla propria scia i cadaveri dei più deboli.

Della crisi economica si parla a profusione: le previsioni OCSE (che, per inciso, vengono continuamente riviste in negativo) parlano di un tasso di disoccupazione superiore al 10% nel 2010, e quasi un milione di persone hanno già perso o perderanno il posto di lavoro entro la fine del 2009.

Il panorama politico non fa che uniformarsi ai propri interessi: in un momento di crisi – cioé quando la politica dovrebbe rendersi un’arena di partecipazione, discussione, confronto – si tenta a tutti i costi di imporre un sistema bipartitico che comprime il dibattito e semplifica le idee, che esclude quelle forze “estremiste” capaci di fornire uno stimolo nuovo, una nuova energia, dei nuovi pensieri a un paese altrimenti esausto e fossilizzato. E questa umiliazione dell’estro e del nuovo si opera sia all’interno dei partiti stessi (quando mai si è sentito di un partito di massa che, in un sistema bipartitico, proponesse un programma innovativo, coraggioso, rivoluzionario?), sia in Parlamento (che rappresentatività può vantare un Parlamento in cui il 10% degli elettori non si vede attribuito nemmeno un seggio su mille, e il restante 90% si ritrova rappresentato da individui scelti da altri?). È nei momenti di crisi, non in quelli di stabilità e benessere, che si trova lo spazio per operare i grandi cambiamenti, e i nostri governanti, ben consci di ciò, stanno facendo di tutto pur di impedire ogni interferenza.

Senza dimenticare, infine, che una ingenua imbecillità impera nelle istituzioni e negli organi di controllo. Dal Parlamento, infestato da delinquenti, veline, fannulloni, alle più alte cariche dello Stato, che alla meglio dormono, alla peggio si intrattengono con prostitute e menestrelli la mattina dell’elezione del Presidente degli Stati Uniti. Dalla magistratura, che non fa assolutamente nulla anche solo per apparire imparziale e spoliticizzata, ai media, che non conoscono via di mezzo tra il servilismo omertoso e il perpetuo e sterile sventolìo dei soliti e arcinoti misfatti da italietta (che pure, per carità, vanno denunciati). È la credibilità che manca, manca la sensazione di avere a che fare con individui onesti e in buona fede: dovunque ci si volti non si fa che incrociare il sogghigno di qualche volpone, che si tratti di un servitore del “sistema-italia” o di un paladino dell’ “anti-sistema”. Chi merita la nostra fiducia, oggi, in questa dicotomia perversa?

E – oggi come negli anni ’70 – la sinergia tra crisi economica, mancanza di rappresentatività e perdita di credibilità delle istituzioni spinge inesorabilmente verso la frustrazione.

Lo si sente nell’aria, questo odore, come quello dell’umidità prima di un temporale. Sa di sangue, violenza e rabbia.

Frustrazione, come quella che spinge un branco di ragazzi “di sinistra” a pestare a sangue due “fasci” seduti fuori da un bar, o quella che incita dei “camerati” a mandare all’ospedale dei ragazzi che “sembravano di sinistra”. O peggio ancora, quella che induce le forze dell’ordine a usare la forza contro manifestazioni pacifiche, contro persone che hanno perso il lavoro e sono mosse solo dalla disperazione.

È una violenza, questa, che somiglia troppo a una lotta per la sopravvivenza. È una violenza incontrollata e senza senso perché priva di un obiettivo, di una direzione, è priva di uno scopo. È una rabbia cieca, perché non colpisce i responsabili del disastro attuale e, anzi, fa mille volte il gioco di chi, come loro, sulla paura ci vive. È una frustrazione profonda, che si scarica in funzione di attriti storici tra ideologie morte e sepolte, mancando clamorosamente i bersagli del presente.

Come ho detto, spero con tutto il cuore di sbagliarmi, ma la mia è una sensazione che s’è incastrata tra lo stomaco e il cuore, e che non accenna a sparire. Gli anni di piombo sono finiti, ma le loro cause scatenanti sono rimaste, come assopite, nell’ossatura della nostra società.

E un poco mi vergogno, ma tra me e me mi ritrovo a chiedermi se, in fondo, il Grande Fratello sia davvero preferibile alla P38.

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