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All’insegna del Noise il concerto di Arto Lindsay al Blue Note di Tokyo

Poco prima di rientrare in Italia decido, consapevole di poter soffrire acusticamente, di assistere al primo set di una due giorni del quartetto di Arto Lindsay al Blue Note.

Scarsa affluenza, sia per la giornata, un lunedì, sia per la poca, forse, conoscenza del musicista. Arto è un americano che ha vissuto molto tempo in Brasile perché i suoi genitori vi si erano trasferiti per lavoro. Si è innamorato del Paese e adesso vive a Rio de Janeiro. Pur amando la musica brasiliana, – è stato produttore, tra gli altri, di Caetano Veloso - sembra divertirsi a suonare un pop semplice zeppo di Noise. I brani sono tutti originali, il volume sonoro è molto alto, anche se i tecnici giapponesi sono assai bravi e riescono ad attutire abbastanza, anche se mangiare ascoltando questa musica non è il massimo del godimento o della rilassatezza. E’ un concerto più adatto ad un loft, ad un locale underground, che ad una sofisticata, teoricamente, casa del Jazz.

In 70 minuti Arto esegue 12 brani più l’immancabile bis. Suona una strana chitarra, un’elettrica a 12 corde, diventate 11 perché una l’ha tolta lui di proposito. I pezzi sono quasi tutti cantati, la maggior parte in inglese, un terzo in portoghese, mentre un paio sono solo strumentali. C’è affiatamento fra i quattro, che sembrano divertirsi, anche se il più felice sembra lui, vocina esile, piccoli tocchi allo strumento e poi, nei solo, distorsioni improvvise, che scatenano un Noise infernale.

Bravo e sicuro il batterista, Kassa Overall, che predilige gli strumenti Gretsch, ma qui percuote un set Yamaha con due snare e tre piatti personali. Dopo l’esordio con “Prize” è lui a cominciare con suoni secchi “Grain By Grain”, virando verso un ritmo che potrebbe assomigliare ad un Samba-Rock.

Due le tastiere, una sopra l’altra, per Paul Wilson, capaci di variare il colore dei pezzi. In questo caso, c’è un morbido registro d’organo, il batterista si sposta verso una simil-batucada ed è l’unico a non partecipare ad un terrificante Noise generale. Spesso Wilson usa il registro del piano acustico, anche se il volume è un po’ alto, oppure introduce caldi suoni wah-wah riscoperti da molti musicisti più o meno giovani. E’ il caso di “Invoke”, che inizia con un basso elettrico delicato, uno strumento a cinque corde impugnato da un gigantesco Melvin Gibbs, portatore di una copiosa capigliatura rasta. La tastiera accenna ad uno Swing a volume morbido, ma viene subito spaventata da guizzi distorti della chitarra.

Il brano, cantato in inglese, si inserisce tra due in portoghese. Il primo, “Vao queimar ou botando pra dançar”, inizia con un pad di batteria, mentre le tastiere riproducono il frinire ininterrotto delle cicale d’estate. Nel secondo “Seu pai”, “suo padre”, Overall percuote con i mallets una coppia di bongos. E’ un brano finalmente tranquillo, e allora Arto decide di disturbarlo strappando energicamente le corde del suo strumento. Non contento, nel successivo “Unpair”, fa andare tutto in distorsione avvicinando la chitarra alle casse acustiche.

Un bel suono liquido della tastiera in “Tangles” assomiglia quasi a quello di un organo da chiesa. Un dolce giro di basso prelude ad un piacevole assolo melodico , mentre la chitarra instaura un fraseggio di contraccolpi, o meglio strappi di corde e colpi di tamburi, con la batteria.

Ha uno stile vicino a quello di certe canzoni di Lou Reed “Illuminated”. Una delle due tastiere assume le sonorità di un Moog. Overall si ritaglia un assolo di batteria misto di suoni acustici ed elettrici, ovviamente disturbato dai tocchi di chitarra del leader, in “Each to Each”, mentre un loop in tempo reale perpetua il suono del campanaccio acustico, che scandisce un Afro-Rock in 6/8 in “Ilha dos prazeres”.

Un sambareggaeska, nello stile degli Olodum, caratterizza il brano conclusivo, “Combustivel”, l’ultimo ad essere cantato in portoghese.

Il bis, “Simply are” sembra un samba camuffato con una certa sofisticatezza.

 Applausi, anche se poco convinti. Ma il personaggio è così. Sale sul palco perché gli piace disturbare la tranquillità o, forse, in questa maniera, è lui che la trova, sorridendo candidamente verso un pubblico visibilmente perplesso.

 

Foto: 

MAKOTO EBI
 

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