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Aldo Moro, il vero artefice della svolta verso il mondo arabo

ALDO MORO, IL VERO ARTEFICE DELLA SVOLTA VERSO IL MONDO ARABO

di Agostino Spataro *

1…Dalla “questione d’Oriente” alla “questione araba”
La presenza di una nutrita e qualificata partecipazione democristiana nell’Associazione italo-araba aveva anche una spiegazione politica riconducibile al nuovo approccio della Dc verso il mondo arabo. Una vera e propria svolta verificatasi, nella prima metà degli anni ’70, grazie all’intuizione che ne trasse l’on. Aldo Moro proprio a partire dalla presa del potere in Libia di Gheddafi e dall’inatteso cambiamento dei rapporti bilaterali che porterà all’espulsione degli italiani.
Fu questo lo spunto, concitato e drammatico, per una presa d’atto del più generale cambiamento del mondo arabo post-coloniale che si caratterizzava per il suo nazionalismo panarabista, suffragato dal crescente ruolo econo­mico stra­tegico, soprattutto per la produzione di petrolio da cui l’Italia di­pendeva quasi al 100%.
Questi ed altri aspetti alimenta­rono una forte corrente d’interessi internazionali verso i paesi arabi, alla quale si associò, sep­pure con ritardo, anche l’Italia.
Le tormentate vicende interne e i conflitti anticoloniali (Marocco, Tunisia, Algeria, ecc) e quello arabo- israeliano, che ancora oggi sembra insana­bile, generarono movimenti popolari di liberazione che taluni, di­menticando quelli antifascisti europei, si ostinavano a definire sbrigativamente“terroristi”.
Molti non si accorsero, o finsero, che, con la fine della se­conda guerra mondiale e l’avvio del processo di decolonizzazione su scala planetaria, la “questione d’Oriente”,com’era intesa in chiave coloniale, era divenuta la “questione araba”. Stava nascendo, a due passi dall’Italia e dall’Europa, un “mondo nuovo”, carico di pro­blemi e di potenzialità, che si estendeva dall’Atlantico al Golfo Persico, passando per il Mediterraneo. Un mondo che, dopo secoli di dominio coloniale, chiedeva un riconoscimento politico per la sua indipendenza, un posto dignitoso nella storia e nel libero consesso delle nazioni, un rapporto paritario con la nuova Europa in costruzione.

Un processo interessante, a tratti controverso, di vitale importanza per i futuri assetti mediterranei e del mondo che, in Italia, soltanto la sinistra, in particolare il Pci, aveva colto e seguito e, in al­cuni casi, aiutato concretamente.

Il filo atlantismo commisto al pregiudizio anti-islamico avevano impedito al mondo cattolico, ai suoi governi di assumere una posi­zione di comprensione, di solidarietà quantomeno politica.
Come detto, la prima, vera occasione in cui i sommovimenti arabi destarono l’attenzione preoccupata degli italiani fu, proprio, la “ri­voluzione” del 1° settembre 1969 in Libia ad opera del gruppo di giovani uffi­ciali guidati da Muammar Gheddafi. La presenza (e la sorte) di circa 20.000 italiani nell' ex colonia giu­stificavano la preoccupazione e inducevano il governo a intrapren­dere i passi necessari per tutelarla.

2. Contrariamente a quanto si pensa, non fu Giulio Andreotti a elaborare e a inaugurare la nuova politica estera italiana verso la Libia e, in generale, verso il mondo arabo. Fu Aldo Moro, nel 1969 mini­stro degli esteri, cui capitò fra capo e collo la responsabilità di ge­stire lo scottante dossier Libia, i rapporti col nuovo regime inse­diatosi a Tripoli, resi difficili dal rimpatrio forzato degli italiani.
Una “rivoluzione” per tutti inattesa, svoltasi sulla falsariga di quella egiziana del 1952 attuata dagli “ufficiali liberi” guidati da Abdel Gamal Nasser. Gheddafi e i suoi commilitoni s’ispirarono alle idee e alle grandi opzioni politiche e sociali del “rais”, considerato il nuovo profeta della rinascita della “nazione araba” in chiave popolare e socialisteggiante, del quale si procla­marono seguaci… a sua insaputa. In sostanza, quei giovani ufficiali libici fecero la “rivolu­zione” in nome di Nasser, senza preavvertirlo.

Tanto che- nota Mino Vignolo nel suo citato libro “Gheddafi”- Muammar Heykal, inviato da Nasser per prendere contatto con gli autori del colpo distato, atterrato a Bengasi cercò, invano, Abdulaziz: “Dov’è Abdulaziz? E’ convinto che il nuovo leader sia Abdulaziz Shalhi, il capo di stato maggiore dell’esercito con cui Nasser ha ottimi rapporti. Heykal non sa che il suo uomo che aveva prepa­rato il putsch per il 4 settembre, è in carcere…”

Evidentemente, ci fuun contrattempo nel calendario delle “rivoluzioni”. Nel senso che Gheddafi anticipò di tre giorni la “sua” e, così,riuscì a fregare e, a incarcerare, il potente concorrente. Comunque, a parte tale inconveniente, i rapporti fra Gheddafi e il presidente egiziano furono intensi e proficui, fino al punto che Nasser, pochi mesi prima di morire, lo indicò come il suo “erede” politico più coerente e determinato.
 

Aldo Moro, che era ben edotto sulla realtà di tali rapporti mediante le puntuali informative della nostra am­basciata del Cairo, colse il senso e la portata del mutamento politico avvenuto in Libia e in atto nel mondo arabo e, facendo di necessità virtù, impresse un ap­proccio più ravvicinato e dialogante, di moderata autonomia (rispetto ai vincoli dell’Alleanza atlantica) alla politica estera italiana verso quelle re­altà in ebollizione.

La nuova impostazione nasceva, certo, dall’esigenza di tutelare gli italiani in Libia,ma anche da una prospettiva di collaborazione e di dialogo diretto, anche al difuori della stringente logica dei blocchi contrapposti.

Nell’ottobre del 1969 (a poco più di un mese dal colpo di stato di Gheddafi), in un discorso alla Camera, il ministro degli esteri Moro presentò le linee essenziali della nuova concezione dei rapporti po­litici con la Libia, indicando le principali direttrici di marcia per meglio af­frontare i problemi specifici nel segno della collaborazione. Ecco un passaggio, commentato da Arturo Varvelli.

“Il discorso di Moro aveva due valenze: era una chiara risposta alla sinistra, ma, non a caso, si rivolgeva direttamente a Gheddafi e ai nuovi governanti libici dopo gli attacchi alle potenze straniere dei giorni precedenti. Moro era preoccupato di delineare chiara­mente la politica dell’Italia agli occhi della Libia. Quella del leader democristiano si profilava come una politica estera “etica”.

Evidenziava l’anticolonialismo della Repubblica e si pronunciava a favore di un assoluto rispetto dell’indipendenza e dell’integrità di tutti gli Stati del Mediterraneo, e insieme tendeva una mano a quei Paesi, avendo probabilmente in mente la Libia, che desidera­vano agire in autonomia dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica.”
Concludendo con un’assicurazione e con un invito rivolto ai capi del nuovo regime:
“Siamo pronti a cooperare con i nuovi dirigenti libici nel comune interesse che lega i nostri due Paesi, le cui popolazioni si com­prendono e le cui economie si completano, come è dimostrato dall’andamento degli scambi commerciali…” [1]

3... L’intuizione di Moro fu, in generale, apprezzata e sostenuta dalla gran parte dello schieramento politico e parlamentare e sarà verificata,confermata e sviluppata nel corso degli anni successivi, sia nei rapporti con la Libia sia con altri Paesi maghrebini e arabi: Tunisia, Algeria, Marocco, Egitto, Siria, Libano, ecc.


Il punto più critico dei rapporti con i libici si raggiunse nel luglio del 1970, quando Gheddafi decretò l’espulsione dalla Libia di circa 20.000 italiani
provocando un grave dramma sociale e umano e se­rissimi problemi al governo italiano.

Moro, nell’impossibilità di bloccarla, se ne fece una ragione. Anzi, secondo un telegramma inviato il 6/9/70 da Tunisi ai Capi dello Stato e del governo italiani, ne diede un’interpretazione poli­tica tendente a sdrammatizzare.

“L'esproprio e la cacciata della comunità italiana servono in parte anche a coprire la ritirata ideologica di Gheddafi sul fronte della lotta a Israele, oltre che a ribadire il carattere rivoluzionario del regime. I Colonnelli han bisogno di gesti del genere (anche nel settore del petrolio, ove si contenteranno per ora dell'aumento del prezzo), così come continueranno ad avere bisogno di complotti, veri o falsi. A organizzare questi ultimi pensano i servizi speciali egiziani". (Alberto Custodero in “La Repubblica”del 9/8/2008).
Se non proprio giustificativa, tale posizione appariva quasi com­prensiva, tipica di chi non cerca vendetta ma un buon accordo.

Una conferma indiretta di tale proposito si ebbe in quello stesso anno, quando l’opposizione libica, in combutta col governo inglese, mise in atto un piano per rovesciare Gheddafi.
Aldo Moro avrebbe potuto aiu­tare i congiurati e punire chi aveva scate­nato la campagna contro gli italiani. Invece, diede al generale Vito Miceli, capo del Sid, l’ordine di bloccare (a Me­stre) la partenza della nave dei golpisti e così salvare Gheddafi e il nuovo re­gime da un attacco che poteva essergli fatale.

Seguì, il 5 maggio 1971, un cordiale incontro tra Moro e il Colon­nello nel quale il ministro degli esteri italiano si rese disponibile verso le richieste libiche,spingendosi addirittura- come sostiene Custodero - a promettergli la“fornitura di mezzi di trasporto navale ed aerei, in particolare elicotteri o aerei da addestramento ”.
 

La nuova politica estera italiana verso l’area mediterranea e araba troverà la sua più solenne enunciazione nella Conferenza interna­zionale di Helsinki (1975) sulla pace e la sicurezza nel Mediterra­neo.
 

In quella eccezionale vetrina delle nazioni, Aldo Moro pronunciò un memorabile discorso nel quale ribadì ed ampliò la nuova strate­gia italiana, mirata a rinsaldare i legami di cooperazione pacifica con tutti i Paesi rivieraschi, alla ricerca di un ruolo dell’Italia, rela­tivamente autonomo rispetto alle strategie Usa e Nato.

Questo fu il vero punto di svolta della politica estera italiana che sicuramente sarà stato notato, e annotato, a Washington. Bi­sogna dare atto ad Aldo Moro di avere saputo, dal versante gover­nativo, concepire e pilotare un processo fondamentale sul quale si baseranno le politiche dei governi successivi.
A quel tempo, Andreotti, più volte ministro e capo del governo, giocava a fare il leader di una destra moderata, filo atlantica, che non disdegnava i voti della destra neofascista in Parlamento e i “consigli” provenienti dal Vaticano e dalla Casa Bianca.
 

Soltanto nel 1976, col suo governo delle “larghe intese” e poi con quello di “solidarietà nazionale”(1978) nella cui maggioranza parlamentare figurava il Pci, l’on. Andreotti raccoglierà (quasi se la intesterà) quella ispirazione, dai comunisti molto caldeggiata, volta a costruire una nuova e unitaria politica araba e mediterranea dell’Italia. D’altra parte, è noto che l’on. Andreotti non fu un grande stratega ma, soprattutto, un diligente esecutore.

A tale svolta contribuì, in misura rilevante, il Pci che, fin dalla fase delle lotte di liberazione nazionale dei paesi arabi, era stato l’unico partito italiano a prospettarla, a rivendicarla, facendo anche tesoro dell’esperienza di Enrico Mattei nel mondo arabo.
 

Quando i capi della Dc (fra questi anche Amintore Fanfani) si ac­corsero della “questione araba”, il Pci aveva, da anni, maturato un patrimonio di contatti e di proposte, realizzato esperienze di solida­rietà e collegamenti con movimenti e partiti arabi, la gran parte dei quali erano al governo nei rispettivi Paesi.

Insomma, questa convergenza non fu un “inciucio”.

Da entrambi le parti (Dc e Pci) si era consapevoli di aver operato una scelta responsabile, impe­gnativa, autonoma a difesa della pace e della cooperazione nel Me­diterraneo, a tutela dei legittimi interessi economici italiani nel mondo arabo. (Prima parte)

https://www.amazon.it/NELLA-LIBIA-GHEDDAFI-Cen…/…/B00DSQ1WEG

 

[1] A. Varvelli “L’Italia e l’ascesa di Gheddafi” Editori Baldini Castoldi Dalai, Milano,2009

Foto: Wikipedia

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