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Alcune annotazioni su ’Marialuce’ di Andrea Tarabbia

Sta arrivando la fine, o quella parte dei fatti che per me ha significato la fine della storia. Nella casa non ho lasciato più niente.
(pag.85)

***

‘Marialuce’di Andrea Tarabbia, Zona Editrice, collana Novevolt diretta da Alessandro Raveggi ed Enrico Piscitelli, è uscito nel Maggio 2011 (pag.110, euro 11).

Si tratta di un romanzo breve composto da due parti distinte.
Una prima ‘nota dei curatori’ che introduce il lettore nella finzione narrativa, parte brevissima, ricca di informazioni sui protagonisti della storia che poi si dipana nella seconda parte ovvero il ‘corpo’ vero e proprio della narrazione.
Ci sono dunque due angoli di visuale, due diverse modalità narrative (quanto meno è ciò che ha impostato l’autore).

Difficile ragionare di questo libro senza nominarne elementi della trama e personaggi, considerando la brevità e gli effettivi svolgimenti. La stessa ‘nota dei curatori’ svela in modo fulminante alcuni nodi dell’ossatura di questa trama fondata interamente su un ‘già stato’ poi riavvolto e ripercorso in un ‘succede’.

Tarabbia racconta in apparenza la storia di un compositore di musica classica alle prese con una crisi profonda, un viaggio che dai primi tratteggi sembra già aver imboccata una strada a senso unico, ogni tentativo di modificarne rotte e traiettorie lo trascina inevitabilmente sempre più a fondo, tra ragionamenti contorti, scelte folli e visioni distorte d’un reale dove nulla è come lui vorrebbe dunque non è affatto.

In apparenza questo libro è la storia di Arturo Borgia.

Il titolo, invece, pare ammiccare, dedicare forse, l’intera narrazione a un altro personaggio: Marialuce. La moglie del grande maestro in declino, a sua volta immersa nel mondo musicale a cui è devoto il marito, docente di armonia presso un conservatorio imprecisato.
Dunque, potrebbe essere la storia di Marialuce anche se, superata la ‘nota dei curatori’ è più chiaro che si tratta della storia filtrata da Marialuce, è lei la voce che ne dipana piaghe, assurdità, evoluzioni, collegamenti tra passati, dinamiche a decostruire legami, affetti e approcci.

A mio avviso non è né l’una né l’altra.


Questo libro narra di disagi, scelte, egoismi, abbandoni, affezioni nocive, necessità distruttive, follie nelle più ampie declinazioni, in mezzo a talenti e passioni dai sapori sfocati, scivolosi.
Arturo e Marialuce sono più spesso pretesti, che personaggi, e con loro gli altri interpreti dai nomi oscurati a mimare una fittizia privacy che ne decostruisce sagome, voci e passaggi.

In un qualche modo è la stessa finzione impostata da Tarabbia a scricchiolare.
La ‘nota dei curatori’ non si amalgama con gli scritti d’una Marialuce che – nella finzione – “ha redatto questo testo, si direbbe, a uso esclusivamente personale e senza la volontà dichiarata di tramandarlo ai posteri”. I curatori – sempre nella finzione – la pensano diversamente e pubblicano il resoconto della donna la quale, evidentemente, per ruolo professionale e contesto sociale ha un preciso background culturale che pure mi sembra cozzare continuamente con l’idea che scrivesse per sé, per liberarsi e tirare fuori ricordi, fatti ed emozioni rispetto a un periodo cruciale del suo vivere nonché della vita stessa del marito. Probabilmente il lettore se ne dimentica, della finzione artificiosa, seguendo una narrazione che in realtà, secondo me, finalizza ogni frase, ogni aneddoto, ogni dialogo, ogni pensiero; tutto è per e verso il lettore.

Fu dopo tre o quattro giorni di assenza di mio marito ch, svegliandomi un mattino nel letto dove avevo dormito sola, Arturo Bergia mi mancò. Probabilmente, pensai, quello che nel carteggio viene chiamato semplicemente «l’atroce scherzo» è già stato portato a termine, e Bergia è da qualche parte al Santa Chiara a fare la riabilitazione seguito da O***-S***.

(pag.68)

Il collegamento diretto tra mente è corpo in questo libro è evidenza sebbene si deve pazientare, attendere che la narratrice ci si soffermi, che ne mostri le diramazioni e i punti di contatto esposti. Ed è un’esposizione ‘naturale’, come se fosse esattamente così che dovesse andare, come se il corpo dovesse comunque piegarsi alle volontà della mente ed esprimerne ogni emozione più profonda, specialmente quelle che lo spezzano, deformano, contorcono.

C’è nella scrittura di Tarabbia una miscelazione che il lettore deve saggiare per capire, la quarta di copertina non gli rende giustizia piuttosto ne facilità l’etichettatura entro dinamiche di un certo panorama italiano molto ‘alto’ e molto ‘lontano’ dalle capacità di comprensione del lettore (come macro categoria evidentemente vaira ma tendente a distinzioni di massa). Un’etichettatura da cui diffidare, Tarabbia impasta ben altro, entro le ricerche linguistiche, in mezzo ad alcuni virtuosismi e tra le esigenza di utilizzare strumenti ed esperienze narrative che lo rendono autore in maturazione, tra sperimentazioni, cadute ed espressività intense.

“Andrea Tarabbia, nel suo stile asciutto e analitico, ci racconta con questa suite narrativa senza tempo un’emblematica storia di violenza domestica, di amore asettico che consuma, in un’intimità ce si scompone praparandosi a un olocausto finale.”
(dalla quarta di copertina).

 

 

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La scheda del libro dal sito della casa editrice.

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