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Al Teatro della Valdoca arriva la tragedia di Caino di Mariangela Gualtieri

Mariangela Gualtieri, Teatro della Valdoca. Il tempo passa e la ricerca si storicizza. Per questo motivo è coerente che venga pubblicato per la prestigiosa Einaudi il testo "Caino", una tragedia che ha una forma classica e potrebbe essere collocata a fianco di qualche autore della tradizione.

L’intuizione non è da poco e batte sul tempo (storico e cronologico) gli altri drammaturghi. Scegliere Caino come protagonista significa risalire all’archetipo umano e non è pensabile figura precedente nei ricordi della storia ebraico-occidentale che possa incarnare una drammaticità così violenta.

Adamo ed Eva nell’arte figurativa sono stati punti di riferimento per esprimere la sofferenza della fiducia persa con la cacciata dal giardino paterno. Ma la materia è buona nel Beato Angelico, in Michelangelo, per inserirla in un racconto più ampio. Diversa è quella di Masaccio, dove la cacciata è un episodio che può essere isolato, reso universale. E’ una delle rappresentazioni più forti e vere della disperazione, del dolore, del rimpianto per un gesto irrimediabile.

La Gualtieri sostiene che la presenza dei genitori, sebbene così importanti nella creazione di una personalità, sarebbe stata ingombrante nel dramma. Inoltre, Adamo ed Eva nel racconto biblico rimangono in secondo piano e a rappresentare la figura paterna è Dio, a pretendere che gli si offrano doni, prediligendo l’agnello sacrificato da Abele al frutto della terra coltivato da Caino.

Cacciati dall’Eden e chiuso, in teoria, il discorso fra creatore e creati, Dio inspiegabilmente continua a manifestarsi con ordini precisi e, ricorda il testo, da adesso in poi lo farà attraverso roveti ardenti, tavole della legge, parole di distruzione, di rivendicazione, di pretese. Attraverso inquisizioni, porpore, anelli da baciare.

Mariangela Gualtieri puntualizza che, secondo la Bibbia, Caino non può essere considerato un prototipo umano, perché colui che coltivava e seminava la terra, nel momento in cui la bagna del sangue fraterno, è destinato ad una vita errabonda senza progenie. La terra macchiata dal sangue è sconsacrata, il gesto violento porta alla sterilità. Il Caino della Gualtieri è in realtà “homo faber (s)fortunae suae”, un uomo che nell’unità di luogo si estende nel tempo fino alla fine del genere umano, inventando le metropoli, la tecnologia, la guerra per prevaricare e ottenere. Se non è prototipo, nella esegesi biblica, nell’invenzione della Gualtieri è rappresentazione dell’essere umano e delle sue complessità.

In scena, secondo le indicazioni del libro, compaiono alcuni personaggi (compreso il coro) che sussurrano, incitano, sconvolgono la mente di Caino. Sono Caino stesso, sono le singole parti che ne compongono un’unità e che attraverso spinte contrapposte e cadute abissali nelle profondità umane ne costruiscono e completano la figura. L’uomo moderno non è raffigurazione del Dio biblico, ma di Caino stesso, dei suoi sensi di colpa che prendono forma, della rabbia che sale dalle viscere. Nel momento dell’abbandono divino, nasce in Caino la volontà di mettersi in competizione con il Creatore, plasmando in realtà un mondo imperfetto a sua immagine e somiglianza.

Caino, sottolinea Mariangela Gualtieri, nel momento in cui si stabilisce nella città che ha costruito è un esempio di scandalo per il popolo nomade ebraico. Con lui parte l’avventura tecnologica, che ha in sè anche elementi positivi. Caino non è il male, bisogna ribadire, è l’essere umano macchiato di un peccato o di mille peccati, ma capace di ideare, immaginare, costruire.

Il Caino attuale non può fare a meno della rappresentazione della violenza, di osservarla dallo spioncino nelle sue manifestazioni domestiche e familiari, di guardarla dalle finestre nelle strade dove viene coltivata e la fa crescere nell’immaginario fino a consacrarla come elemento fondamentale dell’intrattenimento. L’ossessione per il dolore e il sangue provoca un turbamento irresistibile. E’ il frutto dell’invenzione della metropoli di Caino, è ciò che ci ha lasciato in dono, insieme alle guerre, alla rabbia, alla prevaricazione e alla solitudine che coltiva le nostre angosce.

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