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Afghanistan, stragi: i timori sulla via della seta

Le elezioni politiche afghane previste per il prossimo 20 ottobre, contro cui si scaglia la nuova ondata di terrore del Daesh asiatico, hanno in quest’ultimo un acerrimo nemico, ma anche altri osservatori. Innanzitutto i taliban che su tale terreno non sembrano impegnati ad assediare il presidente Ghani. Perché con lui hanno aperta una schizofrenica e defatigante altalena di trattative cui seguono periodicamente anche azioni armate, rivolte prevalentemente su obiettivi militari e simbolicamente politici. Certo, talvolta ci scappano tante vittime civili, ma ovviamente non è questo che preoccupa i talib. Costoro nei mesi scorsi, e probabilmente continueranno, hanno ingaggiato con lo Stato Islamico del Khorasan (una delle sigle sotto cui i miliziani dissidenti si sono riuniti) un confronto all’ultimo morto per vari motivi. Primo: controllare un numero crescente di province e con esse le popolazioni che le abitano. Secondo: dimostrare la propria efficienza militare, che però non risulta così forte da assumere il controllo dell’intero Paese come nel 1996. Terzo: non perdere la supremazia nel ruolo di resistenza primaria all’occupazione occidentale e ai suoi governi fantoccio. Però gli stessi turbanti ortodossi manifestano due tendenze verso la nazione che più d’ogni altro li foraggia, il Pakistan, e verso certi suoi settori, l’Inter-Services Intelligence.

I talib afghani hanno buoni rapporti col governo di Islamabad, quelli d’origine pakistana li hanno pessimi sino a giungere allo scontro aperto con gli apparati della repressione, soprattutto l’esercito. Vari governi, dai tempi del generale islamista Zia Ul-Haq, passando per Masharraf e Sharif, utilizzano gli “studenti coranici” in armi come forza eversiva per la propria penetrazione in Afghanistan all’interno di un mai celato disegno egemonico nella regione. Ma il caos afghano, incentivato nell’ultimo anno da altri eventi mediorientali come l’evaporazione del progetto del Califfato sui territori iracheno e siriano, aumenta l’attenzione sull’insicurezza di quel Paese per altri soggetti impegnati in loco. Si tratta delle aziende interessate al sottosuolo, il terzo polo d’attrazione del Paese dell’Hindu Kush dopo basi militari e business dell’oppio. La Metallurgical Corporation of China è un gigante che nel 2008 ha ricevuto dal governo Karzai l’esclusiva per ricerche e sfruttamento minerario, iniziando da quelle di rame di Mes Ainak, a 40 km sud-est da Kabul. Inutile dire che la contropartita di tre miliardi di dollari non è andata, né andrà, a beneficio della popolazione. Dal 2013, quando la prospettiva del ritiro di gran parte delle truppe statunitensi è diventata una realtà, la Cina ha iniziato a interessarsi della questione sicurezza.

Le imprese non amano il caos politico, tantomeno quello militare, e le turbolenze nello scenario afghano pongono problemi agli affari cinesi. Quello metallurgico è solo uno dei facenti capo al ciclopico progetto del ‘One road one belt’ che segue percorsi d’ogni genere. Coinvolto in una sua provincia dall’estremismo dell’etnìa uigura, il governo di Pechino vede nella pratica terrorista legata a questioni etniche e/o religiose un tema da affrontare ovunque i suoi interessi sono presenti. Con l’insediamento dell’amministrazione Ghani ha partecipato al quadrangolare col governo locale più Stati Uniti e Pakistan che dal 2014 apre tavoli di trattative coi taliban. Come dicevamo, in certe fasi questi tavoli si chiudono, ma il pragmatismo cinese non si perde d’animo e quando i turbanti hanno deciso di parlare solo con le armi a Kabul, la diplomazia li ha condotti a Ürümqi, nel focoso Xinjihang degli uiguri, continuando dialoghi che il network islamista accetta perché la Cina finora non schiera truppe fuori di casa. In realtà qualche manipolo di ‘consiglieri’ militari è giunto anche in terra afghana, ma si tratta di scambi di facciata all’interno della citata collaborazione quadrilaterale. Pechino tiene a non sporcarsi le mani di sangue, sa che ciò implicherebbe gravi problemi, visti le tristi esperienze russa e americana, però la questione della sicurezza dei luoghi resta una contraddizione con cui fare i conti.

Il fatto che finora i cinesi non abbiano mai parteggiato per nessuna etnìa, religione o fazione li pone all’occhio talebano come un interlocutore; l’equilibrio mostrato da Pechino segue il principio di evitare sia manipolazioni sia un dominio politico su Kabul.

Certo il rischio che la situazione interna si opacizzi su un caos di tipo siriano, con un frazionamento del territorio in aree controllate da differenti entità rappresenta di per sé un grosso problema per chi deve far viaggiare materiale, fossero pure minerali. Alcuni analisti sostengono che nella sua praticità la Cina può essere disposta a subentrare nella strategia degli aiuti internazionali a fondo perduto finora sostenuta da americani e Unione Europea, sebbene con una diminuzione d’investimenti. Oppure può puntare su un attore locale forte ma instabile e imprevedibile come il Pakistan. Il progetto ‘One road one belt’ che mira ad aprire passaggi e frontiere ha nelle strettoie di certa geopolitica se non un nemico, un ostacolo non da poco. Far convivere i rapporti con potenze regionali pesantemente interessate agli sviluppi degli orientamenti afghani, quali il Pakistan e l’Iran, è degno del miglior equilibrismo diplomatico. Le linee della ‘non interferenza’ e della ‘vicinanza costruttiva’ potrebbbero incepparsi davanti all’imprevedibilità di progetti esclusivamente distruttivi come quelli bellici e dell’ideologismo armato. Quanto l’economia cinese sia disposta a far pagare alla sua geopolitica è da verificare. Quello che da decenni stanno pagando gli afghani come vite umane, sfruttamento, povertà, azzeramento dei diritti, è sotto gli occhi del mondo. 

Enrico Campofreda, 24 aprile 2018

articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it

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