Afghanistan, dai colloqui al voto in un Paese senza pace
Chiarito che il colpo di scena e di spugna sui ‘colloqui di pace’ afghani è opera del presidente Trump, vengono fuori le tensioni che dividono il partito repubblicano statunitense.
C’è chi, come il Consigliere per la sicurezza della Casa Bianca Bolton, non voleva e non vuole il ritiro dei militari dalla “lunga guerra” perché lo spettro dell’11 settembre, di cui ricorre domani il diciottesimo anniversario, è sempre dietro l’angolo. E chi (il Segretario di Stato Pompeo) pensava e pensa che un accordo sia una soluzione utile non solo come medaglia da esporre nella teca delle stipule storiche firmate a Camp David. Eppure la vanità dell’attuale presidente Usa, che avrebbe sfidato quella dei meno permalosi Carter e Clinton s’è fermata, bloccando un percorso lungo un anno e più. La tela tessuta da Khakilzad, il diplomatico afghano che preserva gli interessi americani, resta incompiuta. In verità il tragitto potrebbe ripartire. I talebani ne sono allettati, sebbene abbiano voluto forzare la mano con attentati e morte che nel loro codice incentiva l’autostima e dice ai locali signori della guerra vecchi e nuovi, quelli idealmente vicini (Hekmatyar) e quelli buoni per tutte le stagioni (l’attuale vicepresidente Dostum): senza di noi non andrete lontano. Lo sanno tutti, ma tutto sembra perpetuarsi.
Costui, esponente dell’attuale diarchìa che condivide con Ghani, è un vecchio arnese della politica bifronte praticata dagli uomini del modulo democratico: la veste occidentale s’intreccia al tribalismo dei clan, i legami etnici e confessionali supportano quel parastato dei gruppi paramilitari dei warlords che controllano le province, rappresentando un contraltare alla matrice talebana con qualche principio fondamentalista più attenuato, ma con la medesima violenza. Tutto ciò non è un’opinione, è scritto in quanto di scarsamente popolare s’è fatto nel Paese dal 2003, dopo che il governo talebano era stato sostituito da figure garantiste per una sedicente democrazia. Una linea suggerita da Washington e dagli alleati occidentali che si comportavano, né più né meno, come i padri dell’imperialismo moderno che inventava il Medio Oriente con le spartizioni degli accordi Sykes-Picot-Sazonov. In certa storia che si ripete c’è anche del nuovo, ovviamente tecnologia e attuale economia stabiliscono sistemi di sfruttamento e controllo più sofisticati. Però nel caso della nazione cuore dell’Asia, verso cui si sono alimentati interessi e intrighi che hanno dato vita a un filone geopolitico definito “Grande gioco”, taluni meccanismi non tramontano. E la crudeltà nei confronti di cittadini, cui s’impedisce l’emancipazione, resta immutata.
Enrico Campofreda
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