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Abu Dhabi, l’incontro degli uomini in bianco

Il viaggio all’insegna della tolleranza che il papa cattolico intraprende verso lidi ammantati di tradizione e conservazione, gli Emirati Arabi Uniti, è una scommessa che questi due mondi e tutto quel che ruota attorno - religione, teologia, cultura, visione e rappresentazione della società - hanno reciprocamente deciso d’intraprendere. 

Negli ultimi anni, in un panorama internazionale occupato prevalentemente da uomini forti e speculatori della geopolitica, l’uomo in bianco viene percepito come un costruttore, parecchio diverso da predecessori ideologicamente animati da progetti distruttivi. Chi ama la Storia ha rispolverato nientemeno l’approccio del Francesco originario, il poverello d’Assisi, col sultano Al Malik a Damietta. Mah… I fasti da Terzo Millennio messi in vetrina ad Abu Dhabi sono altra cosa, pur essendo giocati con discrezione dal padrone di casa che dalla visita dell’illustre ospite s’attende un gran ritorno d’immagine. Khalīfa bin Zāyed, settant’anni, emiro succeduto di Zāyed bin Sultān, e cugino di Tamim al Thani, emiro del Qatar, è un uomo concreto e imposta una strategia.

Aprire un discorso su un’acquisita tolleranza del suo Paese verso i cattolici lì presenti come forza lavoro straniera (si pensi a filippini e indiani), può rappresentare una favorevole carta da giocare sul tavolo d’una politica estera piuttosto spericolata. Accanto alla repressione interna, dna congenito delle petromonarchie, l’ultimo biennio di Khalīfa che governa dal 2004, s’è sviluppato all’insegna del mascheramento seguendo le orme del più giovane e più famoso saudita bin Salman. Tolleranza a parole, e non per tutti, repressione nei fatti. E soprattutto guerra. Il conflitto che la dinastia Saud ha scatenato in Yemen intervenendo con uomini e mezzi contro i ribelli Houti e contro i civili dell’etnìa che segue il culto sciita, vede nel governo degli EAU un convito sostenitore e alleato. Perciò quella particolare geopolitica che segue il Vaticano come fosse uno Stato Pontificio de facto, si domanda se il capo dell’influente entità, uomo mite ma uomo di mondo a tuttotondo, porrà all’interlocutore due domande scomode. La prima sul conflitto che si ripercuote tragicamente sulla popolazione civile e sui bambini ridotti alla fame dal miserabile embargo praticato contro lo Yemen, è la più attesa.

Dovrebbe essere anche scontata, visto che il papa l’ha indicata dallo speciale pulpito che dà sul colonnato del Bernini alla vigilia di questo viaggio. L’altra gli giunge dalla cosiddetta società civile che guarda al pontificato di Francesco di questi anni come una missione rivolta ai deboli del mondo. Le masse vessate e abbandonate dagli opportunismi d’una politica che disconosce non solo solidarietà e umanità, ma ogni scampolo di pietà e gode del suo maramaldeggiare. Dunque, c’è chi attende un richiamo papale al senso di giustizia sociale e tolleranza vera verso chi ha pensieri e argomenti differenti dal sistema di potere. Affermare un’apertura mentale di facciata senza applicarla a tutti i campi della vita del proprio Stato è il grande neo dell’emiro. Ricordarlo sarà il miracolo che il mondo dei buoni chiede al suo ambasciatore. Un miracolo che potrebbe non avverarsi se, invece, dovesse prevalere l’altro pur importante fattore, l’incontro in terra d’Islam coi rappresentanti di quel culto che hanno spedito l’imam di Al Azhar Al Tayyeb ad accogliere l’omologo. In fondo le religioni hanno preso a parlarsi e confrontarsi, chi non lo fa sono i politici che le usano per fomentare i propri fondamentalismi. E questi non sono esclusivamente d’impianto wahhabita.

Enrico Campofreda 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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