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A proposito della “Giornata del ricordo” | Le foibe, un mito costruito

In questi giorni ritorna ossessivo il mito delle foibe, presentate quasi sempre come una semplice manifestazione di barbarie e di inspiegabile odio senza ragione nei confronti degli “italiani” visti in blocco come vittime, ignorando quanti di loro invece fossero stati carnefici.

Chi avesse la pazienza di esplorare il mio sito, di articoli su questo argomento ne può trovare diversi, specie negli anni in cui le foibe erano diventate un prezioso accessorio alla inspiegabile campagna sulla non violenza lanciata da Bertinotti e che contribuì pesantemente alla rapida involuzione del PRC e alla sua ulteriore divisione. Ma pur essendo ancora validi, sono troppo legati a vecchie polemiche in parte superate per la sparizione dalla scena politica di quelli che le avevano avviate o importate nella sinistra.

Invece ho trovato questo mio articolo del 2010, innescato da una recensione di un libro esauriente e ben documentato, e mi è parso che possa essere utile a quei giovani visitatori del mio sito che non lo hanno letto a suo tempo, e che già prima del “Giorno del ricordo” sono stati bombardati alla TV o a scuola da ricostruzioni unilaterali e faziose di episodi come la Malga Porzȗs o la strage di fascisti nel carcere di Schio alla vigilia della loro scarcerazione ai primi di luglio del 1945. Episodi tragici ma incomprensibili senza la ricostruzione del contesto storico: per Porzȗs rinvio all’articolo riportato qui di seguito, mentre su Schio, ricordo che proprio alla vigilia della liberazione c’erano state l’uccisione di Giacomo Bagotto da parte delle Brigate nere, che lo avevano seviziato, cavandogli gli occhi e sotterrandolo vivo, mentre a Pedescala, una località vicina, un attacco a un convoglio tedesco diretto al Brennero a guerra quasi finita, il 30 aprile, aveva visto una rappresaglia feroce che fece pagare i sei caduti germanici con la morte di 82 abitanti del paesino. Ma soprattutto quelli che ricordano quegli episodi per avvalorare la tesi della “barbarie dei rossi”, tacciono sullo stato d’animo di quei giovanissimi partigiani che vedevano ricomparire ovunque, indisturbati, i fascisti che credevano di aver sconfitto definitivamente.

 Non tutti come quelli di Schio ripresero le armi, ma molti le conservarono. Penso al caro compagno anconetano Vilfredo Caimmi, che vedendo tornar fuori i nemici di sempre, già nel 1944, evitò di consegnare le armi mantenendole ben oliate in una cantina fino all’inizio degli anni Novanta. Al giudice che l’aveva scambiato inizialmente per un brigatista rosso, spiegò perché non si era fidato a cedere le armi, vedendo i fascisti uscire fuori grazie alla generosissima amnistia, e i partigiani andare in galera, perseguitati da giudici che avevano fatto la loro carriera sotto il fascismo, e che non erano stati toccati minimamente dall’epurazione. E al giudice che gli diceva che poteva anche capirlo per quegli anni lontani e turbolenti, ma gli chiedeva se in tanti anni non aveva mai pensato di consegnarle, Vilfredo rispose: “mi dica lei quando sarebbe stato il momento…”. 

Così chi ha ricostruito faziosamente la vicenda di Schio, e organizzato perfino un incontro di "pacificazione" tra una discendente di una delle vittime e il partigiano ultranovantenne Valentino Bortoloso non riesce neppure a immaginare l’amarezza di quel ragazzo che aveva combattuto davvero, e aveva molti conti da saldare con il potere (non era un “rivoluzionario di professione”, ma un giovanissimo carabiniere sopravvissuto alla campagna di Russia e diventato poi comunista). Tra l’altro qualcuno doveva averlo capito, se la condanna a morte che gli era stata comminata (e che l’edizione romana de “l’Unità” aveva appoggiato, mentre nelle redazioni del nord c’erano state forti proteste) era poi stata trasformata in ergastolo subito, e cancellata da un’amnistia già nel 1955.

E, tornando al tema principale delle “foibe”, ecco l’articolo che ho “rilanciato”, con le mie scuse a chi lo avesse già letto a suo tempo. Con una segnalazione aggiornata: https://bresciaanticapitalista.com/2017/02/07/chi-ha-infoibato-chi/ (a.m.9/2/17)

 

Le foibe, un mito costruito (2010)

 

Difficile immaginare che un libro possa chiudere una polemica pluridecennale, ma certo si può dire che dopo questo Foibe. Una storia italiana di Jože Pirjevec (Einaudi, 2009), sarà più facile ricostruire seriamente la tragedia dell’Istria e della Venezia Giulia nel Novecento e smontare i miti costruiti su di esse.

È vero che c’erano stati molti libri preziosi che avevano già ricostruito ampliamente la vicenda, ma in genere erano di piccole case editrici locali, ed erano stati più facilmente ignorati. Ad esempio Claudia Cernigoi aveva già ridimensionato drasticamente le cifre della propaganda antislava, e aveva documentato anche fotograficamente come era stato modificato il monumento sulla Foiba di Basovizza in occasione della inaugurazione da parte del presidente Scalfaro, per far risultare un numero assurdo di vittime portando in una notte la già inverosimile cubatura presunta dei resti umani da 300 a 500 metri cubi.

Pirjevec aveva già pubblicato alcune opere importanti sulla storia della Jugoslavia, sul conflitto tra Tito e Stalin e anche una monumentale “Le guerre jugoslave 1991-1999”, apparsa anch’essa presso Einaudi. Anche questo libro presenta una ricca documentazione, utilissima per fronteggiare la sistematica campagna revisionista che ha scelto le foibe come elemento centrale e ha avuto l’appoggio non solo della maggior parte dei mass media, ma anche degli ultimi tre presidenti della Repubblica.

Più di ogni altro ha contribuito Giorgio Napolitano, interessato da lungo tempo (come tutta la corrente migliorista del PCI di cui è stato uno dei più autorevoli esponenti) a eliminare ogni ostacolo a un’intesa nazionale tra centrosinistra e centrodestra, e quindi disposto per questo a mettere sullo stesso piano il campo di sterminio della Risiera di San Saba e le vendette partigiane del 1943 e del 1945, ignorando i dati storici e accettando invece quelli forniti dalla pubblicistica fascista. [Sui precedenti di Napolitano, rinvio alla rassegna Miglioristi, sul sito]. Ma già nel 1993 Oscar Luigi Scalfaro aveva fatta sua la tesi che rifiutava ogni contestualizzazione degli eccidi avvenuti in Istria e nel litorale dalmata, negando che fossero diretti prevalentemente contro “elementi fascisti o compromessi con il passato”, e sostenendo che le vittime fossero “colpevoli soltanto di essere italiane”; nel 1997 Scalfaro aveva preparato un decreto per assegnare una medaglia d’oro al valor militare per la città di Zara, che sarà più volte rinviato per la difficoltà di soddisfare le furie revansciste delle associazioni di esuli e di combattenti, e al tempo stesso di non creare incidenti diplomatici con la Croazia e le altre repubbliche ex jugoslave con una versione troppo unilaterale e faziosa.

Il testo della motivazione della medaglia, passato di mano da Scalfaro a Ciampi e poi a Napolitano, era stato gradatamente modificato, con “equilibrismi che progressivamente diventavano funambolismi circensi”, e “barocchi documenti dell’arte del tacere”. Ha ricostruito questa vicenda Paolo Mieli in due pagine del “Corriere della sera” del 23/3/10, registrando non solo le delusioni dei fautori dell’onorificenza, ma anche le perplessità dello stesso Francesco Cossiga, che pure era stato il primo presidente a recarsi nel 1991 alla foiba di Basovizza, per inginocchiarsi sulla lapide. Nel 1997 invece Cossiga, una volta tanto ragionevole, aveva sostenuto che era inopportuno “concedere un riconoscimento [la medaglia d’oro] per un periodo in cui noi eravamo i nemici, ovvero gli occupatori della città, ora parte della Repubblica di Croazia”.

Il libro di Jože Pirjevec dunque, integrato da tre utili saggi di giovani ricercatori sloveni che hanno utilizzato archivi sloveni e italiani, e anche la documentazione dei militari angloamericani che dal 1945 presidiavano la zona A e larga parte della Venezia Giulia e che avevano indagato sulle foibe nel clima della guerra fredda, rimette la questione con i piedi in terra, senza nessun negazionismo, ma ricostruendo le violenze nel loro contesto storico.

Ad esempio affrontando la tragedia di Malga Porzûs, di cui si è parlato molto, non tace che delle tensioni con la formazione “bianca” (anzi “verde”, dal colore dei fazzoletti) detta Osoppo, erano anche responsabili i garibaldini italiani, molto indulgenti nei confronti delle tendenze separatiste che si delineavano in varie parti del Friuli con il progetto di aderire come entità autonoma alla Jugoslavia socialista; ma Pirjevec ricostruisce anche le molte ambiguità della Osoppo, che manteneva relazioni “diplomatiche” con la Wehrmacht e i collaborazionisti cosacchi (ex collaborazionisti in Russia installati dai nazisti nel Friuli) e italiani, compresa la famigerata X Mas. Queste relazioni erano note anche al CLN Alta Italia, e ai britannici, che avevano i propri agenti in zona e le disapprovaronoSenza nessuna indulgenza verso il gruppo guidato da Mario Toffanin-Giacca, che organizzò l’assalto alla malga, Pirjevec ricostruisce anche una premessa in genere taciuta: l’uccisione di cinque garibaldini da parte della Osoppo. Questo precedente, e il fatto che tra le prime quattro vittime di Malga Porzûs ci fosse anche una donna accusata di spionaggio da Radio Londra, servono a spiegare la logica dell’episodio, ma non a giustificare che gli altri 14 membri della Osoppo catturati il quel 7 febbraio 1945 (tra cui il fratello di Pier Paolo Pasolini) fossero portati in pianura e uccisi tutti nei giorni successivi.

È ovvio che tacere questi antecedenti, come si fa nella maggior parte delle ricostruzioni giornalistiche, serve a ridurre a semplice manifestazione della “perversione dei rossi” quello che fu invece un conflitto drammatico avvenuto nel quadro di una dura guerra civile, in cui non mancavano neppure doppi e tripli giochi...

Lo stesso si può dire per la lunga storia di vessazioni alla minoranza slovena e croata tra il 1918 e il 1943, con uccisioni e infoibamenti già nel primo dopoguerra, o per la fucilazione del 6 settembre 1930, proprio a Basovizza, di quattro “terroristi” (tre sloveni e un croato) condannati a morte dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato (che dispensò più condanne a morte agli slavi che ai comunisti). Un evento traumatico, che sarà ricordato dagli sloveni in varie forme (non a caso si chiamerà proprio Basovica sia un foglio clandestino, sia una delle prime brigate partigiane del Collio Goriziano), ma che non a caso non viene mai citato dagli “specialisti del Ricordo”.

Silenzio anche sulle 4285 vittime del terrore nazifascista in Istria, sui 21509 deportati nei lager tedeschi, ma rastrellati spesso dagli ausiliari italiani, sulle 5595 case incendiate (a volte interi villaggi, come Lipa, vicino a Fiume, dove vi furono 262 morti).

Una fonte insospettabile, il vescovo di Trieste Antonio Santin (che nel dopoguerra sarà un fustigatore delle sinistre) aveva denunciato già nel 1938 in una lettera al prefetto di Pola le vessazioni delle autorità italiane nei confronti dei fedeli che nelle chiese cantavano inni religiosi in croato, e il 2 settembre 1943 aveva scritto al cardinal Maglione una lettera accorata in cui affermava:

"Essere slavi non è un delitto […] Villaggi e case incendiate, famiglie disperse, gente uccisa senza motivo all’impazzata, torture e bastonature violente durante gli interrogatori, arresti in massa, campi pieni di internati spesso tenuti in modo disumano (chi parla ha visto con i suoi occhi) hanno seminato odio, amarezza, sfiducia, e hanno favorito la campagna partigiana". 

Si noti la data: il 2 settembre, prima cioè che l’8 settembre esplodesse in forma più grave la vendetta degli sloveni contro gli italiani con l’esercito in sfacelo. E si ricordi che il vescovo Santin era di provata fede fascista… ma capiva che le case bruciate “seminano l’odio contro il nome italiano”. Sui numeri poi delle vittime della vendetta del 1943, ero già intervenuto in precedenza, e rinvio quindi al mio Polverone sulle foibe già sul sito.

Ma varrebbe la pena di ricordare che tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945, in cui le uccisioni furono meno spontanee e più sistematiche, e su cui certo pesava l’orientamento stalinista del partito comunista jugoslavo, che aveva assimilato a fondo il recupero del nazionalismo che stava dietro al "socialismo in un solo paese" e a tutta l'impostazione dei fronti popolari, di morti ce n’erano stati tanti: oltre ai civili massacrati nelle “rappresaglie” nazifasciste, ci furono più di 8.000 tra caduti e feriti della IV armata nella sola conquista di Trieste.

La repressione dei collaborazionisti veri o presunti nel maggio fu di conseguenza dura, anche se non raggiunse le proporzioni incredibili denunciate nella propaganda di destra (che fantasticava di ben 2.500 metri cubi di resti umani, o che – come l’ineffabile ministro Gasparri – parlava addirittura di “milioni di infoibati”).

Gli arresti e le esecuzioni colpirono anche esponenti della sinistra, soprattutto socialisti, non perché “italiani”, ma perché ostili all’annessione di Trieste alla Jugoslavia. Ma ci furono vittime anche tra gli sloveni e gli appartenenti ad altre nazionalità jugoslave, sia per colpe vere di collaborazionismo con i nazisti, sia perché ostili a una Jugoslavia socialista. C’era un conflitto politico e di classe. Poi a volte, come in ogni crisi politica e sociale, c’erano anche i sadici e i criminali comuni che si spacciavano per partigiani. Ci sono stati ai margini di ogni rivoluzione.

Ho avuto modo, per una tragica vicenda che ha colpito un membro della mia famiglia, di capire come anche in Italia nei giorni dell’insurrezione del 25 aprile il numero dei partigiani si sia gonfiato in certe zone grazie alla tardiva conversione di ex fascisti, che approfittavano in vario modo della situazione e si rifacevano a volte una credibilità infierendo sulle vittime prescelte e sui loro corpi. E c’erano anche i sadici che prendevano gusto alle uccisioni. Lenin, a cui Pirjevec mette in conto anche le purghe jugoslave, in realtà era tanto consapevole di questo rischio, che ogni volta che incontrava qualche vecchio amico bolscevico impegnato nella Ceka gli chiedeva se aveva dovuto fucilare spesso. Riferendosi all’esperienza della rivoluzione francese, raccomandava di non assuefarsi mai al compito di uccidere i nemici della rivoluzione che, in un momento in cui il potere sovietico era assediato e in bilico, poteva essere una dolorosa necessità, ma che se si cessava di considerarla tale poteva trasformarsi in una perversione. In realtà la preoccupazione di Lenin era fondata: l’involuzione e l’autonomia della Ceka dal potere dei soviet aveva già cominciato a manifestarsi negli ultimi anni della sua vita in qualche episodio, ad esempio con le fucilazioni di marinai di Kronštadt anche diversi mesi dopo la resa della fortezza.

Tornando al libro, va detto che Jože Pirjevec, al di là dei pregiudizi di vecchio socialista nei confronti di Lenin a cui ho accennato, ha fatto un lavoro pregevole di ricostruzione del dibattito che a Trieste è stato sempre appassionato, anche se intorbidato da fanatici revanscisti e razzisti, e anche da millantatori, sedicenti testimoni oculari “scampati miracolosamente alla morte” che aggiungevano particolari sempre più atroci ai loro racconti…

La crisi e poi l’esplosione della Jugoslavia accrebbe la virulenza dei fascisti, da Mirko Tremaglia a Roberto Menia, che oltre a risollevare il polverone sulle foibe, tentarono nel 1991 con un viaggio a Belgrado di accordarsi con i serbi contro sloveni e croati per una rettifica dei confini e la denuncia del trattato di Osimo. Ma presto ci fu la discesa in campo dei DS, a partire da Luciano Violante, che il 14 marzo 1998 ebbe il famoso incontro con Fini a Trieste, in cui i due si dichiararono concordi nel denunciare gli orrori paralleli della Risiera e delle foibe, assolvendo gli italiani da ogni colpa.

Non mancarono le voci allarmate: ad esempio, Norberto Bobbio chiedeva provocatoriamente: “La destra riconosce oggi che gli antifascisti avevano ragione. Allora la sinistra dovrebbe riconoscere che i fascisti avevano ragione?”.

Anche Enzo Collotti dava un giudizio nettissimo:

"Ci troviamo di fronte ad una montatura che tende ad oscurare le responsabilità e le differenti posizioni di parti diverse. È una sconcia strumentalizzazione della memoria che tenta di far passare subdolamente il riconoscimento della legittimità della repubblica di Salò e delle sue unità militari, le stesse che hanno combattuto sotto il comando tedesco. Si tratta, insomma, di una pericolosa operazione di manipolazione e di mistificazione nazionale".

Poi, dopo Violante, a muoversi su questa strada ci sarebbe stato il leader locale del PDS Stelio Spadaro e, sulla scena nazionale, Piero Fassino e tanti personaggi del genere di Galli della Loggia. Ma il giudizio più severo riguarda Napolitano, a cui è dedicata buona parte del saggio di Guido Franzinetti che conclude il libro.

Giorgio Napolitano ha rappresentato il culmine del processo di “consacrazione del discorso sulle foibe” con il discorso del 10 febbraio 2007 (la Giornata del Ricordo), che suscitò la reazione del presidente della Croazia Stipe Mesić, che lo definì “razzista”.

A livello analitico il discorso (che formalmente avrebbe voluto superare i contenziosi con Slovenia e Croazia) conteneva affermazioni molto gravi:

"Già nello scatenarsi della prima ondata di cieca violenza in quelle terre, nell’autunno del 1943, si intrecciarono giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia. Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzi tutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una “pulizia etnica”."

Ho evidenziato col corsivo le espressioni più gravi: prima di tutto in quei termini (cieca violenzamoto di odio e di furia sanguinaria) che giustificano il giudizio di Stipe Mesić, e che deliberatamente ignorano il carattere di risposta a terribili vessazioni che ebbe la vendetta contadina del 1943. Slavo, per designare quelli che allora erano gli jugoslavi, risente per giunta della connotazione dispregiativa che ha la parola (nel dialetto triestino e istriano: s’ciavo, cioè schiavo). Pulizia etnica proietta l’ombra di quella che ci fu effettivamente nella dissoluzione della Jugoslavia, soprattutto in Bosnia, su un fenomeno diversissimo della guerra e del dopoguerra. Nel 1943, per giunta, non c’era ancora un “disegno annessionistico”. Tuttavia non è accettabile che un Presidente della Repubblica riduca a questo il Trattato di pace del 1947, che era duro, ma in conseguenza di una guerra perduta con ignominia, dopo aver commesso tante atrocità, da soli o in alleanza con il nazionalsocialismo tedesco. Quel Trattato restituiva alla Jugoslavia territori solo in parte italiani che erano stati annessi nel 1918-1920. O dobbiamo rispolverare anche il mito della “vittoria mutilata”? E che dire del silenzio di Napolitano sull’aggressione alla Jugoslavia del 1941, con conseguenti spartizione e annessioni?

Napolitano alla fine di quel discorso faceva un’autocritica per aver contribuito alla “congiura del silenzio”. dicendo di doversi assumere “la responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali”. Può andare bene come “espiazione pubblica di un dirigente comunista italiano”, ma ho la sensazione che siano solo cambiati i “calcoli diplomatici” e le “convenienze internazionali”, e che su questa base ancora una volta non si cerchi affatto “la verità”.

Il saggio di Guido Franzinetti, dopo aver spaziato su un simile panorama di miserie tatticistiche e di consacrazione di una logica di parte che cancella le colpe dell’Italia, conclude richiamando le parole di un “grande patriota goriziano”, Graziadio Isaia Ascoli, che “scriveva in un’epoca di trionfalismo nazionalista italiano e si rendeva ben conto della fragilità della posizione degli italiani nel Litorale”(dalmata):

"Sarà lecito dubitare se sia opera di oculato patriottismo il non badare alle conseguenze che derivano agli Italiani di laggiù [il Litorale] da un’agitazione che muove lo straniero alla vendetta insieme e alla disistima."

“Scritto nel 1895, senza il senno di poi”, conclude Franzinetti. Ma anche il senno di poi oggi scarseggia…

(a.m.2010)

 
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