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A Porpora Marcasciano e al movimento LGBTQI

Un intervento della presidente del MIT ha sollecitato queste riflessioni sullo stato dell'arte del Movimento, uno spunto per aprire il confronto sul Diritto della Persona.

Nei giorni scorsi, su un post di Facebook, ho letto la posizione cui è giunta una delle figure storiche del Movimento LGBTQI italiano, Porpora Marcasciano. L'attuale presidente del MIT (Movimento Identità Transessuale) ha raccolto le sue osservazioni sullo Stato dell'Arte del Movimento in un testo dal titolo "Esistiamo... assistiamo".

Vi si allineano pensieri e considerazioni che condivido nella pressoché loro totalità, ma proprio per questo non posso evitare di offrire il mio contributo al pensiero di Porpora.

Sono spinta a farlo dalle differenze che caratterizzano il suo percorso politico dal mio percorso intellettuale, differenze che non hanno distinzioni di maggiore o minore impegno sociale, ma che si identificano solo in una maggiore visibilità, la sua, rispetto a un engagement meno manifestato, il mio.

Così per chi mi conosce e mi ha frequentata non è una sorpresa leggere che le posizioni assunte oggi da Porpora ricalcano le mie, quelle alle quali io sono giunta ormai da diversi anni.

Posizioni difficili e lontane dal facile consenso, perché si oppongono alle consuetudini politiche e filosofiche che il Movimento ha percorso in questo ultimo ventennio.

Io sono una persona che a 14 anni si è suicidata perché "diversa" anche se poi è sopravvissuta per caso.

Da questa esperienza si è dipanata poi tutta la mia vita successiva e non è un caso che oggi io mi addolori ma parimenti sia imbestialita da tutti coloro che ancora sono costretti a percorrere la via del suicidio.

La situazione italiana per una persona "diversa" oggi non è quella in cui crescevamo noi, negli anni Settanta. Oggi basta avere una connessione internet per scoprire che la propria situazione è condivisa da migliaia (milioni?) di persone in tutto il mondo, che a pochi metri da casa nostra c'è un "diverso" con il quale possiamo condividere la nostra paura, la nostra disperazione, e annientare la prima ragione di suicidio: la solitudine esistenziale della nostra condizione.

Eppure... eppure le Persone LGBTQI (ma non solo) continuano a sopprimere se stesse. Ci passano accanto come ombre, entrano nelle associazioni (quelle che un tempo non erano neppure immaginabili), ascoltano i dibattiti che si tengono durante i Pride e da quelle manifestazioni sfilano via in silenzio verso quella decisione ferale che non consentirà loro altro che il nulla.

Porpora evidenzia gli errori in buona fede di quanti in questi anni hanno portato avanti le richieste, le necessità delle persone LGBTQI italiane in un'analisi preziosa per la sua onestà, ma... poi conclude:

«Non ho ricette ne pretendo di averle, non penso che la mia sia l’unica ragione ne tantomeno pretendo di averla …..ma credo e ne sono sicura, che sulle questioni qui poste, forse in maniera confusa, non abbiamo mai avuto il coraggio di confrontarci, anche quando il mondo e la storia ce lo chiedeva. Qual era il problema? Litigare, scazzarsi? e allora???? Lo abbiamo comunque fatto, dividendoci e frammentandoci e non chiarendo, evidentemente abbiamo perso (tra le tante) la capacità e la volontà del confronto. E intanto ci accingiamo al “prossimo” incontro di movimento. »

Neanch'io pretendo di avere ricette miracolose, e apprezzo quando Porpora scrive: «non abbiamo mai avuto il coraggio di confrontarci...».

Ecco, quello che io oggi vorrei avere - con lei e con quante/i hanno ancora voglia di "fare" - è un confronto, una proposta a considerare con un nuovo punto di partenza le questioni inerenti al Diritto della Persona.

Ho chiarito con me stessa, grazie al contributo di amici ed amiche, la strada che abbiamo percorso, una strada che per gli eventi citati da Porpora si è trasformata prima in tratturo e poi in viottolo, per proseguire in un sentiero tortuoso nel labirinto di questi ultimi anni. Ho preso quindi una posizione nella quale di nuovo sono costretta a patire una condizione di solitudine, ma che per fortuna l'età raggiunta e la compagna con cui vivo mi consentono di sostenere.

Io sono convinta che il nostro errore, di noi persone LGBTQI, è stato quello di permettere a noi stesse e a coloro che del Movimento non facevano parte [in quanto etero, velate, contrari o... anche omo-transfobici] di farci attaccare un cartello sulla schiena. Nelle barzellette delle elementari il bambino ha appeso un cartello con la scritta "somaro", sulla nostra c'è scritto "LGBTQI".

Anni fa, quando nella nostra libreria ospitammo le assemblee per la realizzazione del Pride 2010 di Roma, mi trovai a discutere con alcuni appartenenti ad associazioni sulla mia personale sensazione: il timore che questi luoghi, creati per offrire solidarietà e accoglienza, si trasformassero in ghetti.

E la mia non era una sensazione dettata da un'analisi superficiale di questi luoghi, anzi... di molti apprezzavo ed apprezzo l'impegno che tante persone vi hanno profuso e tuttora vi dedicano.

La mia compagna ha lavorato per anni in un'associazione, quella fondata da Stefano Marcoaldi per le persone colpite da sieropositività, e ho visto e vissuto il senso del fare in volontariato. Quindi nessuna critica a quelle associazioni che ogni giorno, spesso misconosciute, porgono aiuto.

E allora?

Io sono contraria alle sette, ai gruppi chiusi, a quei luoghi che riuniscono persone categorizzate. Tu sei un nero, quindi devi vivere in quel preciso quartiere della città. E anche quando la decisione viene presa dalle persone stesse che si riuniscono in questi luoghi perché si sentono "diverse", e vi cercano ascolto protezione supporto, io faccio molta fatica a considerarla una "buona pratica". Anzi, il contrario.

Così con il tempo ho capito che non mi piaceva portare sulla schiena la sigla LGBTQI, e non solo nella sua globalità, bensì per ogni sua lettera.

Nell'ultimo anno ho trascorso molto tempo a ragionare con le persone che mi sono vicine di "categorie" e di "sessualità binaria". Un ragionare che ha ampliato e rafforzato i miei precedenti punti di arrivo.

In poche parole già definire una persona transessuale, omosessuale, gay, lesbica, bisessuale, intersessuale, è un atto parziale. L'orientamento sessuale di una persona è senz'altro importante, molto importante, ma non ci dà il senso totale di una persona, solo un aspetto particolare del suo essere.

E allora perché questa passione per le categorie? Perché indossare un cappello che ci definisca al mondo? Ne abbiamo davvero bisogno?

Altro punto, di cui discutevo diversi mesi fa con Giovanni dell'Orto via Web: a lui non piaceva, non trovava "politicamente corretto" il nome che noi abbiamo dato al nostro giornale online (Pianeta Queer) per la Storia passata del termine Queer, per quello che la gente collega a quel vocabolo. Quella sua obiezione mi ha aiutata a un ulteriore passo: siamo noi costretti a dipendere dalla storia che ci ha preceduti o possiamo, in quanto esseri liberi, usare un termine secondo un significato che per noi è l'attuale, quello che noi gli attribuiamo, avanzando nella storia?

La stessa cosa mi è capitata qualche mese fa parlando con Mirella Izzo dell'origine del termine persona, che secondo la sua opinione non era un bel vocabolo visto che il suo significato etimologico, e quindi in origine, era quello di "maschera".

Solo due esempi.

Eppure entrambi ci dimostrano la difficoltà della comunicazione, gli orpelli che la complicano al di là della difficoltà già insita in essa.

E perché dovrebbe essere più semplice per vocaboli come "gay" o "transessuale"? E poi, vi chiedo, esiste un solo tipo di gay? Quando una persona viene definita gay ha determinate caratteristiche fisiche e/o psichiche che immediatamente la definiscono in modo univoco? Oppure si tratta di una generalizzazione superficiale? Difatti poi assistiamo a un proliferare di sottodefinizioni, di sottocategorie delle principali - le lesbiche che sono o butch o lipstick...

Da questo ragionamento consegue che ogni categoria, che poi contribuisce alla composizione, di LGBTQI è -secondo me- una generalizzazione, ma poi, peggio, una gabbia.

E questa è la prima difficoltà.

Se poi consideriamo che ogni "categoria" (le lesbiche, i gay, i/le bisex, i/le trans, queer e intersex) si sfaccetta in migliaia di diversi modi di essere, e quindi in problematiche differenti, appare evidente quanto sia difficile unirli sotto un solo acronimo... E se a questo aggiungiamo che accanto a problematiche comuni per tutte le persone LGBTQI ve ne sono molteplici che ineriscono a una sola categoria, o solo a parte di essa... Comprendiamo le difficoltà di questo Movimento.

Un esempio per tutti: quando in piena tragedia da AIDS si andava nei locali frequentati da lesbiche a spiegare la corretta prassi per la protezione, con arroganza le giovani lesbiche rispondevano: noi siamo donne, a noi non interessa.

Così poi certi gay (adulti... sic, e molto attivi nell'associazionismo... sic) sono venuti a sconsigliare me, donna lesbica, dal fare battaglie per le persone transessuali; e per evitare dolore a dolore, non scendo nei particolari di quella gentile raccomandazione.

Negli anni in cui ho tentato di avvicinarmi al cosiddetto Movimento ho dovuto rendermi conto, purtroppo, che troppi strumentalizzavano la loro posizione in associazioni e nelle assemblee del Movimento LGBTQI per raccogliere consenso personale e per entrare poi nella cerchia dell'agone politico grazie a quel seguito raccolto. Ho, purtroppo, avuto conferma negli anni in cui, nel centro culturale che avevamo allestito nella nostra libreria, raccoglievamo le disperazioni e le solitudini di tante persone lesbiche, gay e trans che arrivavano da noi deluse/i da questa o quella associazione.

Oggi, anche se mi sento un po' un novello Donchisciotte, io continuo a sostenere la mia idea: quella di mettere da parte definizioni e Movimenti, la storia avanza e non possiamo camminare con il collo torto all'indietro. Per di più la situazione antropologica e sociale di questo Paese (ma non solo) si è profondamente modificata negli ultimi 15 anni e occorre un drastico cambiamento, un mutamento radicale.

Il raggio del faro deve concentrarsi sulla persona. Sul suo diritto.

Le persone Lesbiche e Gay hanno un diritto, come lo hanno tutti gli altri, un diritto che al suo interno contempla la libertà sessuale e la scelta di un/a compagno/a per chiunque.

Le persone Transgender (come preferisco nominare le persone Transessuali, trovando che l'aspetto della sessualità segua quello del genere e non viceversa... sic) hanno un diritto, come tutti, un diritto che al suo interno prevede per l'essere umano il perfetto raggiungimento tra il genere percepito e quello in atto, al di là della nascita biologica. Un raggiungimento che non deve necessariamente passare per un intervento, vari interventi chirurgici, per ottenere il beneplacito di uno Stato.

E lo stesso per persone Intersessuali e Bisessuali.

Io sono ormai abituata a definirmi una persona. Basta, non mi occorre altro per scendere in piazza.

È questo salto culturale che noi dobbiamo fare nostro.

Perché poi se devo darti una descrizione di me, cara Porpora Marcasciano, allora ti dirò che io sono una migrante, una vecchia senza casa e senza pensione, una persona down e un prigioniero picchiato dalle forse dell'ordine, un'orfana, una carcerata, una transgender, una donna violentata, una profuga in fuga, una palestinese ma anche un'ebrea, un'atea e un'agnostica ma anche una copta in terra musulmana e una cristiana in Cina.

È questo mio diritto di persona che io pretendo sia rispettato, e per questo vorrei che le Associazioni italiane aderenti al Movimento LGBTQI operassero e discutessero.

Oggi, ma già ieri, perché il tempo cammina e io sto invecchiando, e mi piacerebbe riuscire a vedere l'ideale che amo diventare una lotta nonviolenta di tutti.

Flaminia

Questo articolo è stato pubblicato qui

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