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(In)ter(per)culturando: Ma i matti chi sono? (brevi incursioni tra S.Plath e B.Garlaschelli)

Ci fu un breve silenzio, come un respiro trattenuto.
Poi qualcosa calò dall’alto, mi afferrò e mi scosse con violenza disumana. Uii-ii-ii-ii-ii, strideva quella cosa in un’aria crepitante di lampi azzurri, e a ogni lampo una scossa tremenda mi squassava, finché fui certa che le mie ossa si sarebbero spezzate e la linfa sarebbe schizzata fuori come da una pianta spaccata in due.
Che cosa terribile avevo mai fatto, mi chiesi.
[…]
Era come se la cosa che volevo uccidere non fosse in quella pelle e nella sottile vena azzurra che sentivo pulsare forte sotto il mio dito, ma altrove, in un luogo più profondo, più segreto, e molto più difficile da raggiungere.
Bastavano due movimenti. Prima un polso, poi l’altro. […] Ma l’altra, dentro lo specchio era paralizzata e troppo stupida per fare alcunché.
(pag.385 e 389 – La campana di vetro, di Sylvia Plath, Oscar Mondadori)
 
 
 
Etimologicamente, ’matto’ deriva dal provenzale ’matou’, alcun lo connette, al greco ’màtaios’, vano, stolto, demente, da cui l’estratto ’matia’ e il verbo ’matào’, impazzo, che ha la stessa radice di ’mania’, insania, furore. Un’altra possibile provenienza attribuita è il tardo latino ’màtus’ o ’màttus’, ubriaco. Il significato del termine, dunque, è pazzo, stolto, bizzarro. Figurativamente indica qualcuno fuori di misura, smodato (di piaceri, gusti e spese) ovvero che esce dalle norme comuni. 
 
Dei c.d. ‘matti’ in letteratura si trovano moltissime tracce, nella letteratura dei secoli passati e in quella recente. Se n’è scritto tra storie inventate, resoconti, narrativa del reale come nel caso di Sylvia Plath. Se n’è scritto per le ragioni più diverse.

Sylvia Plath si è suicidata a trentun’anni. Ha iniziato a scrivere poesie da bambina. E ha conosciuto la depressione presto, troppo presto. Ha tentato diverse volte di uccidersi, la prima poco più che ventenne l’ha portata al ricovero presso un istituto psichiatrico. Le è stato diagnosticato un disturbo bipolare. Gli scritti di questa donna, giovane, fragile, rivelano attraverso una sensibilità preziosa nonostante la malattia, alcune sfumature intensissime della condizione, dell’essere considerata matta, del sentircisi, del viverlo nelle sue profonde radici e arrancare ogni giorno. L’unico romanzo che ha scritto, La campana di vetro, ne è la scarnificazione, il racconto di ciò che lucidamente la Plath ha vissuto, auto-registrandosi e trasmutando quel reale in una storia legata a sé da un cordone ombelicale di parole e carne. Ha avuto due figli, nonostante le difficoltà di conciliare le pulsioni creative della scrittura con le fatiche dell’essere moglie e madre, i tradimenti del marito, le altalene emotive, i disagi e le incomprensioni per ciò che scriveva.
L’11 Febbrario 1963 ha controllato i bambini che erano a letto, è mattina presto, ha posato accanto a loro pane e latte, spalancato la finestra della cameretta. Poi ha infilato la testa nel forno e ha aperto il gas. Si è suicidata così dopo aver combattuto contro un sentire deformante, destabilizzante, aguzzino per moltissimi anni.
 
[...] E io, tesoro, sono una bugiarda patologica,
e mia figlia - guardala, per terra a faccia in giù,
marionetta senza fili, che scalcia per scomparire -
è proprio schizofrenica,
ha la faccia bianca e rossa, c’è da morire,
le hai sbattuti i gattini fuori della finestra
in una specie di pozzo di cemento
dove scacazzano e vomitano e gridano e lei non sente.
Dici che non la reggi,
è un orrore di femmina.
Tu che hai fuso le valvole come una radio scassata
ripulita da voce e storia, sfrigolio
statico del nuovo.
Diche dovrei annegare i gatti. Con quel puzzo!
Dici che dovrei annegare mia figlia.
Se a due anni è pazza, a dieci si taglierà la gola.
Il pupo sorride, grassa lumaca,
sulle lucide losanghe di linoleum arancione.
[Lesbo, di Sylvia Plath - 18 ottobre 1962 ]
 
 
Ma gli approcci col tempo si sono diversificati.

La scrittrice Barbara Garlaschelli, ad esempio, ha pubblicato nel 2006 (Mobydick) FramMenti (storie di un fortino di periferia) (su Ibs).

Barbara Garlaschelli scrive di un reale preciso, quella del CPS (Centro Psico Sociale) di via Ugo Betti a Milano che ha visitato, e frequentato ascoltando i racconti frammentati delle persone, i malati ricoverati, ma anche di operatori che ogni giorno affrontano l’ignoto, tentato di alleviare sofferenze, pene e paure.

L’autrice, sensibile, attenta, sceglie di scrivere di questo fortino di periferia senza aggiungere virgole o punti. E’ un saggio elaborato con la volontà onesta e puntuale di dare e lasciare spazio alle voci vere, di persone fatte di carne incontrate, vissute, ascoltate. Non c’è finzione, trasposizione narrativa.
 
I matti, le malattie mentali attirano attenzioni volatili e curiosità gommose, se li si può considerare non-reali, relegati dentro storie dove si sa – deve esserci – la fantasia, la finzione impastata dall’autore. L’importante è mantenere una certa ‘lontananza’ con il reale del lettore che, con un lungo sospiro liberatorio, può proseguire la sua vita a lettura ultimata.

Ma Barbara Garlaschelli ha le idee chiare, in proposito:
[…]… far capire alla gente ‘fuori’, quella considerata ‘normale’, che non c’è un recinto oltre al quale vivono le persone che hanno una sofferenza mentale. […] Non esistono i ‘normali’ e i ‘folli’. Esistono le persone, con le loro storie, le loro esperienze, le loro ‘voci’, i sogni, i dolori, le speranze (pag.7 – FramMenti).
 
L’approccio, il come, è fondamentale per capire un testo all’apparenza semplice, che scivola nella lingua ma ferisce, resta incastrato dentro. Storie diverse, raccontate dall’autrice senza filtri, resoconti di incontri, riporti di elaborati degli stessi ‘matti’, annotazioni di umori, percezioni sottili eppure patine unte che l’autrice si è portata oltre i muri, oltre stanze e volti.
 
Le parole, il linguaggio, possono diventare ponte o muro, essere comunicazione o ostacolo. Le parole possono trasformarsi in un cilindro magico da cui escono emozioni, sensazioni, immagini. Sempre, sempre contengono molto più di quanto non siamo disposti a capire, ascoltare, accettare. […] Frequentando questo luogo ho scoperto che le parole sono anche altro. Sono spesso il non detto, quella forza incontenibile che spinge le donne e gli uomini verso altre donne e altri uomini, o che li allontana.
(pag. 9 – FramMenti)
 
La voce dell’autrice è una guida, una sorta di accompagnatore per il lettore che rischia di perdersi facilmente tra vite, sensi a tratti sconnessi, apparentemente illogici ma anche lucidi ragionamenti di persone che, nonostante tutto, si cercano, scavano fin dove possono, fin dove mente e corpo riescono ad arrivare senza spezzarsi del tutto.
 
Il ‘cubo di cartone’, il CPS, è un contenitore che racchiude misteri, incubi, visioni, eccessi, orrori e piccole gioie quasi-perdute.
Molto sono le sotto-tematiche che emergono da questo saggio.
L’anaffettività diffusa, causa ed effetto di dolori fortissimo, ferite (in)cicatrizzabili. La malattia che non si vede, se non osservando con attenzione movimenti, gesti, sguardi e parole, quel senso di sanità apparente e di malattia-colpa sotto-dentro-oltre vestiti e immagini riflesse da specchi sociali.
 
Se la malattia non è riconosciuta dal mondo, il mondo ti lascia fuori. La realtà è che siamo tutti ‘fuori’, sia chi i segni li porta sulla pelle che quelli che li portano nell’anima.
(pag.139 – FramMenti)
 
Nonostante tutto, resta pre-potente e disarmante il senso dell’essere comunque vivi, pulsanti, capaci – ancora (ancora è una parole che ricorre, come uno stupore perenne, come se non fosse ragionevole, logico, che certe dinamiche, percezioni, emozioni restassero, si manifestassero) – capaci dunque, ancora, di fare, registrare gesti, strati di sensi ma su livelli non sempre coincidenti, differenti senza che questo implichi un ‘male’ preciso. E la solitudine. Le paure. I sentimenti repressi poi esplosi. Il rapporto spesso contradditorio, difficile, con l’aiuto chiesto e quello ricevuto (al Centro quanto altrove, da sconosciuti ma anche parenti e amici). Lo scontro titanico tra normalità e il resto, il non esserlo (qualunque cosa sottintenda).
 
‘FramMenti’ resoconta vite ‘non sane’. Speranze. Affogamenti. Percorsi. Cadute. Crolli. Sguardi e volti che Barbara Garlaschelli ha conosciuto, ne ha sentito le vicinanze quanto le profondità scure, probabilmente irraggiungibili.
 
Tante malattie, nomi che spaventano pur non comprendendo (il più delle volte) i significati fondi, senza conoscere i sintomi precisi, le terapie, le manifestazioni di mali che abitano persone costrette ad accettare il sub-affitto, costretti a plasmarsi contro cortecce dure e irremovibili. Ma, come scrive la Garlaschelli, sono sempre e solo persone. Carne, ossa, sentimenti, logiche e tante, tantissime parole. In attesa di ascolti.
 
Ripropongo alcune domande sull’argomento, fatte all’autrice l’estate del 2009.
 
Chi sono ‘i matti’ per Barbara Garlaschelli?
“Sarebbe facile e ruffiano risponderti: ‘I matti siamo noi’, anche se un po’ è vero. Nella mia piccola esperienza di scrittrice che ha frequentato per quasi due anni un cps milanese (per scrivere il libro framMenti) ho capito una cosa: i matti sono donne e uomini che per qualche motivo non riescono a essere “dentro” un universo cui vorrebbero appartenere e questo provoca loro dolore e solitudine immensi. La ‘normalità’ diventa un valore assoluto. Il poter condurre una vita fatta di cose “normali” in autonomia per molti è un miraggio. Ho incontrato pochi ‘matti felici’. L’idea romantica del folle che vive nel suo universo di bizzarrie non è vera. Ho incontrato molte persone straordinarie, questo sì. Ma segnate dalla sofferenza, dalla consapevolezza di sentirsi ‘diversi’. Ed erano tutti lì per curarsi, per tornare all’ambita ‘normalità’. Diversa per ciascuno di loro.”
 
Quanto lo scriverne, il narrare storie che li riguarda può ’servire’, favorire la decodifica di sensi, disagi, dolori, visioni e battaglie? Oppure è mera ’spettacolizzazione’ per attirare attenzione da superficie, che non scava ma smuove sentimenti ’semplici’ e lontani, da mero intrattenimento o quasi?
“Io posso rispondere solo per quel che riguarda la mia esperienza con FramMenti: è un libro che, nonostante la difficoltà di distribuzione, sta girando da quattro anni, ha portato a dibattiti, incontri, letture, ha suscitato emozioni forti. In me che l’ho scritto e in tutti quelli che lo hanno letto e con cui ho avuto la fortuna di parlare. Cosa poi possa un libro, non lo so. Sta nelle coscienze di coloro che lo tengono tra le mani. Io ho fatto ciò che desideravo fare: scriverlo. Non so perché me lo hanno chiesto, ma perché una volta entrata in contatto con queste persone sono stata travolta da ciò che mi raccontavano e che suscitavano in me. È stata un’avventura umanamente e professionalmente unica e straordinaria, di cui sarò loro eternamente grata.”
 
L’esperienza di FramMenti, il progetto poi il libro, cosa rappresentano per te, oggi?
“Credo stia nella risposta due, con un’aggiunta: Guido Leotta (l’editore di FramMenti, Mobydick) insieme al gruppo Faxtet e all’attrice Elena Bucci, hanno ccostruito un reading musicale sul testo che hanno portato in giro per l’Emilia Romagna e che lunedì 19 ottobre approderà al Teatro Verdi in via Pastrengo a Milano all’interno degli eventi legati al mese della psichiatria.
Questo rappresenta una sorta di continuità dell’esperienza FramMenti. Come se il viaggio di tutti quelli che sono lì, tra quelle pagine, me compresa, non fosse ancora terminato.”
 
Barbara Garlaschelli cura diversi blog. Uno ‘ufficiale’ ricco di storie, condivisioni tra altri autori e segnalazioni. Un altro, per i pensieri disordinati. Oltre a collaborare con altri spazi virtuali, tra i quali il recente MissFatti, dedicato all’antologia ‘Alle signore piace in nero’ pubblicata da Sperling & Kupfer, curata assieme a Nicoletta Vallorani.
 
Ringrazio Barbara Garlaschelli.
 

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