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Mascariamento

In Sicilia si chiama "mascariamento" lo sporcare qualcuno nell’onore e nella moralità. Mascariare qualcuno è l’equivalente italiano di calunniare ma in senso più forte, cioè attraverso la legalità. Ripropongo un mio scritto del 1987 intitolato "La Legge dell’ira e il destino dell’Italia", che mi costò un mare di insulti da parte di coloro che sostenevano l’operato della sinistra politica che sette anni prima aveva creato la legge sul pentitismo, sulla quale meditai per anni prima di pronunciarmi in merito. 

Oggi che il "mascariamento" si affaccia nel mondo politico come neologismo della commistione fra mafia e politica, ripropongo quello scritto, dato che il decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625 (Gazzetta Ufficiale, 17 dicembre 1979, n. 342), "Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica", convertito poi nella legge 6 lebbraio 1980, n. 15 - Gazzetta Ufficiale, 7 febbraio 1980, n. 37) non è altro che il fondamento legale del "mascariamento". 

In quello scritto mi appellavo alla fermezza interiore per sostenere che l’etica di una legge che incita al tradimento rimane sempre e comunque l’etica di una legge che incita al tradimento. Ed intendevo dire che ciò su cui occorreva concentrare l’attenzione non era tanto l’aspetto formale della "legalità" (che per quanto ne sia la parvenza, non conferisce legittimità alcuna al tradire) del ricorso al "pentitismo", ma il retroscena interiore che incoscientemente muove il legislatore verso una direzione colludente con il subumano. Direzione estranea alla tradizione occidentale del diritto, ma non estranea all’attività interiore violante ogni logica: in quanto dilaniata da mille contraddizioni (Violante, appunto, creò quella legge, e mai un cognome fu così azzeccato). 

La suddetta legge è rimasta così l’immagine speculare dell’odierna dodi&c, acrostico da me creato per caratterizzare il Corporativismo Dove Ogni Deficiente Impera), in cui si riflette il destino di un intero popolo, luminoso quanto al passato ed alle potenzialità inespresse, ma ancora oscuro in quel lato di sé dove l’Italia ha il privilegio di incontrare quel limite, sconosciuto ad altri, da sempre sollecitante le prove di fedeltà, fraternità e perdono come momento trascendente gli interessi di ogni partitocratico gregarismo.

La funzione del diritto non dovrebbe forse essere quella di conciliare i contrasti, con la sua certezza pacificare gli animi, anziché produrre continue divisioni, paure ed odio?

La Legge dell’ira e il destino dell’italia
(cfr. "Graal, Rivista di Scienza dello Spirito", Anno IV, num. 15, settembre 1986)

"La legge produce l’ira; dove non vi è legge, non vi è neppure violazione" (Romani 4, 15). Questa affermazione di Paolo di Tarso non e un esortazione all’anarchia, ma un personalissimo paradosso.

Poste certe proporzioni concettuali, inevitabili debbono essere le conclusioni: Paolo indossa le forme del sillogismo, ed esasperandone la natura, perviene al paradosso come ad una immagine-forza che costringe la logica, inaspettatamente, alla resa. Battuta dalle sue stesse armi, la logica si arrende allora all’immaginativa morale ispirata da una intelligenza libera dalla causalità propria al mondo sensibile, e cade nel suo nulla, senza urto, contrapposizione o qualsivoglia violenza.

Il sillogismo, nel passo citato della Epistola ai Romani, consiste nel postulare che in assenza della legge non può verificarsi trasgressione, e quindi neppure il castigo e l’ira che di quella sono l’immediata conseguenza. La semplicità paradossale di questa affermazione mira a dimostrare la possibilità della libertà umana di scegliere, ancor prima che la legge ad essa lo imponga, il proprio destino nella fedeltà (pistis). Fedeltà alla libera scelta e libertà nella fede consentono di liberare il destino dalla necessità della legge, onde a questa non resta che il compito di negare il "male". Quella trasgressione così indissolubilmente legata alla logica normativa che la vieta ma che, suo malgrado, opera per il "bene": per ricordare alle istituzioni il primato della fedeltà da cui esse traggono origine e senso.

La legge, e la trasgressione da essa implicitamente provocata, mostrano all’uomo un limite, la cui consapevolezza dovrebbe muovere il giudice e il giudicato verso quella compassione che è l’unico correttivo al male comune. Quando è invece la logica ad improntare la legge, sia nel momento formativo che in quello esecutivo, questa finisce con l’imporsi con la troppo facile autorità che deriva dal prevalere in essa dell’ovvio ed implacabile giudizio tratto dal mondo dei sensi: dalla elementare dimostrabilità di questo di contro all’indifesa e invisibile essenza umana.

La fedeltà alla più intima essenza umana - che non appartiene al mondo, ma al ben più vasto dominio che consente all’uomo di pensare, sentire e volere oltre la natura stessa - è allora tradita, comprata dal soldo del mondo dove la regola della quantità ha buon gioco sulla incommensurabile qualità.

Legge e logica esauriscono dunque la loro funzione pertinente alla sfera sensibile dell’esistenza: la libertà e l’amore irrompono ed illuminano il rinnovato intelletto, l’unico che possa occuparsi della custodia e della vita del pensare, cioè della più intima essenza dell’uomo.

Il popolo incominci a vigilare! Vigilare significa volere restituire ai fatti, alla tecnica, alla giurisprudenza, ad ogni prodotto dell’intelligenza ormai preda del magnetismo tellurico, l’immagine e l’idea di cui sono stati privati, onde poterli riconnettere con l’organo dell’intelligenza solare che, rischiarandoli di nuova luce, ne dispone la soluzione e l’uso secondo la riconquistata misura umana.

Il subumano aborre l’umano, perciò tenta di ipnotizzarlo mediante il mito astratto ed impersonale del diritto e della logica. La paura che esso ispira all’uomo è tale da fargli preferire di adeguarsi e soggiacere a questa mitologia, come ad un’autorità che benevolmente conceda l’esenzione da impegnative responsabilità individuali. Un’autorità simile a quella preferita dai maiali di Indra alla possibilità di tornare uomini offerta dal dio.

La via da seguire è quella di liberare la legge dalla fatale necessità in cui la costringe il suo essere scritta con plumbei ed immutabili caratteri, di restituirla alla vita immaginativa in cui possa respirare come legge non-scritta e come tale possa essere assunta dalla più alta responsabilità della coscienza individuale. Questa, nella fortuna e nella sventura, affidandosi alla forza che tutto sostiene, alla sovranità dell’Io, riconosce la legge come il limite da trasformare, come l’istanza ad incontrare, intrepidamente, senza cedimenti, quanto incede dall’esistenza, così da ripristinare l’originaria gerarchia tra norma interiore e norma esteriore e vanificare l’immutabilità del precetto e l’inevitabilità della violazione.

Come nel corpo umano gli organi del ricambio o quelli della vista rispondono ad una precisa funzionalità, come il sonno succede alla veglia per temperarne le fatiche, e come la natura esplica invariabilmente ed insensibilmente le sue necessità, così diritto e logica assolvono ad una funzione fisiologica indispensabile per la conduzione dell’esistenza ordinaria e per l’edificazione della vita sociale.

La possibilità di trascendere il livello fisiologico inerente all’assetto giuridico, riguarda il grado di moralità di un popolo e delle sue guide: la sua capacità di elevarsi, attraverso fedeltà ai principi che ne hanno informato l’immagine sovrasensibile, all’interpretazione dei reati che turbano la "logica" degli ordinamenti come simboliche istanze alla guarigione di mali antichi e dimenticati.

Il fatto che quel livello sia oggi frequentemente superato in basso dipende dalla serie infinita di tradimenti - questi sì veri reati - perpetrati dai popoli e dalle guide ad essi preposte. Attraverso il tradimento, il subumano ha modo di espropriare la legge e di servirsi della logica degradata a razionalità istintiva, come di altrettanti, terribili strumenti di vendetta e ritorsione contro coloro che, incarnando l’errore, loro malgrado indicano la via della salvezza.

Il subumano ha buon gioco nell’unire in basso gli uomini, nel renderli "massa" compatta contro chi è accusato - a torto o a ragione, non importa - di insidiare la saldezza di questa complicità ed i vantaggi che ne derivano. Pertanto, dovunque tale infera forza si è organizzata, manovrando all’unisono le istintività collettive, mobilitando le infinite risorse della ragione sempre pronta a giudicare e a reclamare sangue riparatore, nel grembo della memoria del mondo sono state deposte le spoglie degli innumerevoli condannati senza appello: da Giordano Bruno a Giovanni Gentile, dalle vittime dei tribunali parigini del Terrore, a quelle profanate sul luogo stesso del loro martirio. Questi citati sono solamente alcuni esemplari vertici - il più grande, Gesù di Nazaret, crocifisso anch’egli in nome della Logica del Diritto - prodotti dall’umano, decaduto oltre la soglia inferiore, e poi faticosamente risollevatosi proprio in virtù di tali immolazioni.

Ma in Italia, patria di spiritualità e contraddizione, mascherate dalla ragion di Stato e da una troppo proclamata emergenza, degenerazioni legislative si sono già abbastanza inclinate verso l’angolo più buio di quella soglia. A confortare questa triste impressione si posero, da una parte, l’indifferenza generale - sintomo forse più degradabile dell’odio - e, dall’altra, quel certo prefichismo sadduceo che col clamore della sua enfasi protestataria distrae l’attenzione dalla vera realtà della posta in gioco.

Non mi riferisco tanto alla pena di morte che l’America chiede all’Europa (e dunque anche all’Italia) di reintrodurre nelle Costituzioni per i sospetti di terrorismo, cosa che non è ancora avvenuta, bensì a qualcosa che è già avvenuto e cioè a quanto emerge dalla meditazione obiettiva sul testo del Decreto-Legge 15 dicembre 1979, n. 625 (Gazzetta Ufficiale, 17 dicembre 1979, n. 342) "Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica", successivamente convertito in Legge (6 febbraio 1980, n. 15 - Gazzetta Ufficiale, 7 febbraio 1980, n. 37) con alcune modifiche più formali che sostanziali.

Al di là degli isolati rilievi lodevolmente mossi a questa Legge dagli stessi esperti (vedi a proposito della carcerazione preventiva, F. Cordero, Procedura penale, Milano 1985, p. 130 e segg.) e dell’esito favorevole di alcune sentenze processuali in parte emendanti la medesima, quel che deve concentrare l’attenzione non è tanto la legalità o meno del ricorso al "pentitismo", alla carcerazione preventiva (o alle altre misure indicate dalla Legge come strumenti di lotta alla mafia e al terrorismo), ma il retroscena interiore che ha incoscientemente mosso il legislatore verso una direzione colludente con il subumano, estranea alla tradizione occidentale del Diritto, ma - a quanto purtroppo pare - non alla giovane anima italiana, dilaniata dalle mille contraddizioni, proprie ad un essere ancora in formazione e alla ricerca di un’identità: identità che l’Italia riconosce ed incontra nella fedeltà al compito sovrasensibile assegnatole dalla sua realtà sensibile, quale scaturisce dall’osservazione della composita natura geografica ed etnica, dalla sua persino evidente conformazione di spina dorsale d’Europa, dall’ineguagliabile ma sofferto passato.

La suddetta Legge significa per l’Italia quel che per il singolo essere umano significano, per esempio, il trapianto d’organi, la conseguente predazione degli stessi, la manipolazione genetica, e così via: la minaccia che la vita immateriale non possa pervenire a plasmare con la regolarità che le è propria, l’interna unità, l’armonia delle funzioni, la personalità creativa dell’individuo.

È illusorio, inoltre, voler sopraffare il "male" mediante la repressione di quelle forze vitali - sempre presenti in un evento patologico - che il male stesso sollecita per la propria guarigione; è come tentare di guarire un organismo malato mediante la violenza indiscriminata di un inopportuno trattamento chemioterapico o radiologico, spesso destinato ad accelerare il processo di degenerazione.

La legge sul pentitismo è un immagine speculare - una sorta di ritratto di Dorian Gray - della nostra Italietta odierna, in cui si riflette il destino di un intero popolo, luminoso quanto al passato ed alle potenzialità inespresse, ma ancora oscuro in quel lato di sé dove l’Italia ha il privilegio di incontrare quel limite, sconosciuto ad altri, da sempre sollecitante le prove della fedeltà, della fraternità civile, del perdono come momento trascendente gli interessi della fazione, del partito, della famiglia.
Tale legge sancisce dunque uno stato di fatto, decreta con la sua logica quello che l’uomo può però superare in forza di amore, ma tradisce la sua naturale funzione e ispessisce la già cospicua consistenza del limite sopra accennato, con il minacciare pene più aspre di quelle già previste dal Codice per gli stessi reati (art. 1 del Decreto) - quasi il suo fine fosse la vendetta e non la giustizia -, con il sedurre il "concorrente " (vedi art. 4-5) promettendogli parziale immunità qualora "aiuti le autorità nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti", con l’infierire sull’innocente - ché è tale fino a quando non se ne sia dimostrata la responsabilità - violandone la libertà mediante l’umiliazione del fermo, della perquisizione, della carcerazione preventiva (art. 6 e sgg.).

Se il legislatore si proponeva, come è lecito supporre, di rafforzare la fedeltà alle istituzioni, di promuovere la pacificazione sociale, di tutelare la libertà, il risultato, e le conseguenze oggi ben visibili, provano il contrario (il caso Tortora ne è solo un esempio).

In sostanza la Legge 6 febbraio 1980 si presenta come un male peggiore di quello che intende curare: la fedeltà non può essere promossa nella coscienza di un popolo dall’invito al tradimento, né l’idea della libertà dal sospetto indiziario o dalla minaccia di pene più spaventose.

Il Diritto dovrebbe conciliare i contrasti, con la sua certezza pacificare gli animi e non produrre ulteriori divisioni, paure ed odio. Quando il Diritto viene meno al suo assunto, si invera quanto affermato da Paolo di Tarso: "la legge produce l’ira" se negli uomini non trionfa il primato della fedeltà, che è la più immediata, tangibile, realizzazione dell’amore, l’unica in grado, mediante il sacrificio che essa ispira e l’intelligenza che risveglia, di instaurare la libertà come condizione non fittiziamente politica dell’esistenza, di respingere il subumano entro i confini del suo regno e di elevare l’umano alla dignità che lo attende.

"Le pene che oltrepassano la necessità di conservare il deposito della salute pubblica, sono ingiuste di loro natura; e tanto più giuste sono le pene, quanto più sacra ed inviolabile è la sicurezza e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi", scriveva Cesare Beccaria ("Dei delitti e delle pene") amplificando la voce di una genialità tutta italiana che, ancora oggi, guarda al suo popolo come alla promessa dell’instaurarsi, nei campi del sensibile, di quell’afflato celeste riconoscibile nell’essenza più verace ed indialettica della libertà e dell’amore. Se in questa promessa è riposta la particolare natura della missione dell’Italia, la Legge in questione, con l’incoraggiare il (o con il costringere al) tradimento dell’amicizia - che, sebbene nata sullo sdrucciolevole terreno dell’utopia, è pur sempre la più concreta speranza della libertà e dell’amore -, contraddice allora la possibilità di tradurre in realtà l’impegno originario.

L’infamia che ne deriva non riguarda che in minima parte i cosidetti "pentiti", ma coinvolge uomini ed istituzioni nell’identica responsabilità di volersi sottrarre a quanto deciso nel decorso della storia individuale e nazionale: decisione che sottende alla scelta, prenatalmente compiuta, di misurarsi con le prove e il destino di questa Nazione, sacrificalmente concepita, secondo l’intento dei Padri, per la nascita sulla Terra della cittadinanza dell’immateriale, cui attengono le forme universali della libertà e dell’amore non conoscenti le tradizionali limitazioni di stirpe, fazione o razza, il cui ethos una volta legittimamente testimoniava il divino ed oggi lo contrasta, volendo ora il divino donarsi, dalla sua cosmicità, nella libera cittadinanza dell’uomo nel mondo.

La missione dell’Italia è quella di realizzare l’unità dalla divisione, l’universale dal molteplice, e non stupisce quindi che proprio qui, e non altrove, siano mobilitate tutte le forze, legali o clandestine, a contrastare tale disegno.

Da sempre il subumano, approfittando della congenita inerzia umana ad affidarsi alla sicurezza della promiscuità del sangue, al suo passato pilotante per essa pensieri e moralità già fatti, riguarda come ad uno scandalo ciò che è nuovo dall’essenza e che urge come libertà e amore per incarnarsi, quale novus ordo oltre ogni antico ordinamento.

Il progetto alessandrino di ripristinare l’universalità dell’uomo e della cultura dal coacervo di razze e civiltà che componevano quel vasto impero e che, in virtù dell’ispirato magistero aristotelico, mosse lo stesso Alessandro, lui macedone, ad indossare vesti straniere, a sposare la bella Rossane ("Luminosa", in quella lingua), a presiedere al matrimonio di diecimila macedoni con altrettante donne persiane, suscitò un tale scandalo fra i suoi e nella sua epoca, per tanti versi simile all’attuale, da potersene cogliere immutate le proporzioni nelle vivide pagine di Arriano, Curzio Rufo e Plutarco.

Lo scandalo di quel progetto, di cui l’Italia si è resa meravigliosa depositaria, ne ostacola ancor oggi l’esecuzione, occultandosi nei poteri leciti ed illeciti, resistendo nelle attizzate invidie di classe, nascondendosi nei buoni sentimenti dissimulanti la caparbia resistenza di tetre omertà.

Eppure, mai come oggi il disegno di Alessandro di restaurare la coscienza dell’uomo nella cosmopolicità che la sua natura esige, può, dalla sfera della mitica idea dov’è stato primieramente concepito, tradursi in realtà.

Perché ciò avvenga il popolo italiano è chiamato oggi al compito di trasporsi dal piano dell’anima - che ha segnato la sua grandezza nel passato e presentemente il travaglio delle sue contraddizioni - a quello dell’Io che, nella ritrovata atarassia dell’anima, conferisca unità, concordia e direzione all’immenso patrimonio di forze, altrimenti destinato a disperdersi nel quotidiano avvicendarsi di nobiltà e miseria, di magnanimità e piccineria, che ne distingue, presso gli altri popoli, il peculiare carattere.

Se l’Italia oggi vive la contraddizione di essere il Paese della mafia, del potere contrattato, della latente guerra civile affioranti persino nella sua legislazione, è perché attraverso tali prove essa potrà accedere a quella più alta parte di sé dove tutto questo è già superato e realizzato nella virtuale unificazione di genti tanto diverse, riunite dalla storia sul suo suolo per intendersi attraverso l’universale favella dell’arte e del pensiero, il cui respiro continua ad esaudire l’ansia di spirito di chi inconsciamente guarda al nostro Paese come alla speranza ed alla promessa di una individuale catarsi nell’esistenza restituita alla vastità della sua cosmica origine.

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