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Di ’Un’ Giorgio Vasta: alcuni transiti tra analisi e scritture - ultima parte

[Segue dalla prima parte QUI.]
 
C’è ‘un’ Giorgio Vasta estremamente materiale, che di ogni scena registra dettagli, movimenti, oggetti, inquadrature mai casuali, mai ‘voluminose’ ma decisamente ingombranti tra sensi e diramazioni simboliche. Ed è anche ‘un’ Giorgio Vasta che fa parlare le carni. Che da corpi parte per arrivare ad altri (ma anche gli stessi) corpi entro cerchi concentrici che mutano, virano, deformano ma non mollano prese. Personaggi, svolgimenti, dialoghi, pensieri, hanno sempre precise consistenze. I corpi sono strumenti che si possono plasmare, piegare, allenare. Ma sono anche forme espressive di stati d’animo come il rifiuto o la malattia. Entro i corpi si diramano riflessioni, spurgano riflessioni lucide, consapevolezze. Anche i luoghi sono corpi, hanno corpi e carni che parlano.
 
Al traumatologia di Villa Sofia entriamo nella cassa toracica di una balena cieca e pazza che ha corso gli oceani divorando tutti gli orrori del mondo per andare ad arenarsi in un punto del quartiere Resuttana-San Lorenzo e morire con la bocca enorme spalancata di sbalordimento davanti a quest’ultimo errore.
(pag.111. Da notare che proseguendo nel periodare, si narra di ‘vertebre’, ‘struttura’, ‘piedi’, ‘scheletro’ e ‘sangue’).
 
Una delle prime impressioni che ho avuto, addentrandomi ne ‘Il tempo materiale’ è stata quella di trovarmi di fronte a una sorta di ‘interfaccia’, una lingua che narra una storia ma che lo fa dalla superficie per perseguire un obbiettivo primario sebbene tenuto all’apparenza ‘dietro le quinte’, un obbiettivo che non è ermetico, contorto o ‘per pochi eletti’ bensì un affondo successivo. Ovvero: narrare entro sabbie mobili, chiedendo al lettore di lasciarsi avvolgere, avvertirne ogni percezione fonda, totalizzante, carnale, cruda. Una sorta di storia nella storia che la lingua contribuisce a ispessire, le cui pieghe si intravedono dalla superficie ma è necessario accettare il ’risucchio’, permettere al linguaggio superficiale di penetrare tra la pelle per ‘vederne’ gli agganci più profondi, le scintille che collegano parole, sensi, corpi, simboli. Una sorta di ‘lingua pivot’ che contiene le decodifiche necessarie a tradurre se stessa. Non per questo automaticamente semplice, tutt’altro. Probabilmente nelle complessità si celano le piaghe meno curabili di una narrazione, una lingua, che si dirama con costanza e pazienza, fedele a se stessa, e che ha ottenuto consensi, critiche positive, entusiaste, divulgazioni massmediatiche importanti, notevoli. Ma che tra le mani del lettore-chiunque ha bisogno di più tempo, ulteriori digestioni, assorbimenti fors’anche alcune comprensioni tra quei nodi più fondi, simbolici e ricchi di materiale che spurga e preme per uscire.
 
“Aspetto dieci minuti, i respiri che prendono forma; mi giro sulla pancia, riaccendo e metto subito le mani a conca intorno alla luce. Resto fermo qualche secondo, la luce che dentro la grotta delle dita si fa arancione. Studio il dorso delle mani, la forma delle falangi, lo stacco rosa scuro delle unghie contro i polpastrelli; esamino anche le ossa, mi sento informe. Poi un po’ leggo sfogliando piano, sentendo le vibrazioni della carta, un po’ poso la testa sul giornaletto, l’orecchio contro i disegni, e chiudo gli occhi per qualche minuto.”
(pag.37)
 
Per loro le parole sono chiodi e martello, dice, cucchiai e coltelli. Servono a dire, solo a dire, e nient’altro.
Capiscono solo il dialetto, dico.
Sì, fa Scarmiglia, e non capiscono quello che diciamo in italiano.
Adesso Bocca ha messo a fuoco; non solo: quello di cui stiamo discutendo gli piace molto.
Noi conosciamo il piacere del linguaggio, dice. Non soltanto il congiuntivo: il piacere delle frasi.
Mentre Bocca parla tocco il filo spinato, vivo, nella tasca del giubbotto.
Parlare in italiano, dice Scarmiglia, parlare complesso, per noi vuol dire andarcene.
[…]
Siamo colpevoli di linguaggio, esclama Bocca.
Sì, fa Scarmiglia. Il linguaggio è la nostra colpa.
(pag. 69-70, da notare i sottili senso entro le differenze anche simboliche tra ‘dialetto’ e ‘italiano’ ma anche il peso attribuito qui al linguaggio che diventa sinonimo volontario, consapevole di ‘isolamento’, distinzione rispetto agli ‘altri’ritenuti indegni, ritenuti dai protagonisti. In questo stralcio c’è anche un elemento-leitmotiv ovvero ‘il filo spinato’ che il protagonista tiene con sé di frequente)
 
Un esempio ‘carnale’ entro la scrittura è il ‘cranio’ narrato con forza prioritaria a partire da pagina 83 fino alla 89, dove iniziando una fase precisa della trasformazione del protagonista, l’ ‘occhio’ del narratore lo fa emergere, entro un certo simbolismo stratificato. Ma il ‘cranio’ non è elemento assestante, resta, resiste anche in pagine successive per rinforzante l’impatto, il senso.

“Dio chiede a Ezechiele il cranio, di rivelargli il cranio, di regalarglielo denudandolo. E di restituire, attraverso il sacrificio rituale, tutto ciò che è mascheramento e orpello.[...] Tutti prima o poi dovrebbero conoscere il proprio cranio, toccarlo con i polpastrelli, misurarlo a spanne con i palmi aperti contorcendo le braccia per completarne il perimetro e comprimerne l’area, assorbendone la forma e la durezza, la tenerezza, e individuare la fessura della fontanella, la piccola vagina dalla quale il mondo silenzioso ci entra dentro. Tutti, poi, dovrebbero almeno una volta lavare il proprio cranio, insaponarlo, …”
[pag.83-89]
 
Quando finalmente ci fanno passare, i medici pensano che il problema sia il mio cranio. Lo scrutano da tutte le parti, lo toccano con le dita, li sento frugare volgari nel nimbo; poi la smettono e mi fanno fare una lastra al petto; dopo un’altra ora, dalla lastra sviluppata viene fuori che c’è una costola rotta, la settima a sinistra. […] Lo Spago spegne la luce e mentre entro nel primo dormiveglia seduto su un sasso nel deserto c’è Ezechiele che gioca all’Allegro Chirurgo ed è bravissimo, muove la pinzetta dentro le fesure senza mai fare accendere il naso, prende le ossa, le accosta l’una all’altra, le ossa si collegano e sulle ossa si formano i nervi e poi la carne, e adesso seduto accanto a Ezechiele c’è Scarmaglia.. […]
(pag.112-113)
 
L’incipit stesso è destabilizzante. Un undicenne che narra in prima persona dettagliando, ragionando e spiegando con la forza, la consapevolezza, le logiche di un uomo maturo, con esperienza e pensiero estremamente critico verso la società, gli altri che gli ruotano attorno. Talmente lucido e consapevole da evolversi, mutarsi nel corpo e negli intenti. A un certo punto, senza riferimenti continui di tipo anagrafici si tende a dimenticare, che è poco più d’un bambino questo protagonista e così i suo amici.
Oltre tutto, si tratta di un undicenne definito praticamente subito da un’insegnante ‘mitopoietico’, un ‘fabbricatore di parole’. Che la dice lunga sugli sviluppi. E sulla capacità di ‘ricollocare’ elementi del vissuto, delle esperienze.
 
La lira è una valuta neorealista e popolare. Cattolica. Borghese. Un soldo in bianco e nero. […]
Avevo voglia di essere colpevole, dice.
E’ una parola che mi piace. Colpevole. Anche se non ho mai il coraggio di esserlo. Invidio a Scarmiglia la capacità di essere colpevole. Perché di questo si tratta, di una capacità: non tutti possono essere colpevoli; è un destino, ed è un compito.
Cosa vuoi dire?, domanda Bocca.
Che mi andava di fare una cosa che per gli altri è sbagliata ma che per me in quel momento era giusta. Anzi no, non giusta: semplicemente ne avevo bisogno.
(pag.58)
 
Un esempio descrittivo minuzioso ma non ‘inutile’, pulsante:
Mi guardo nella vetrina. Il maglione di lana legnosa. Il colletto laminare della camicia. La cintura di cotone grezzo con la fibbia metallica smaltata e una macchinina dipinta sopra. I pantaloni di velluto blu con le toppe sugli strappi. Le scarpe da ginnastica verde e marrone.
(pag.22)
 
Ci sono poi stralci d’una tenerezza disarmante che, alternandosi a scene d’una crudeltà devastante, emergono, graffiano.
 
E’ così bella, così serena, e sento branchi, sciami, stormi di parole muoversi dal mondo verso di lei, vocabolari interi scomparire nel suo corpo, tutto il linguaggio concepibile farsi materia microscopica e trovare posto dentro la sua carne.
(pag.54)
 
Ero rimasto immobile. Per paura, credo. E per rispetto. Perché ogni volta guardandola mi fa nascere una religione nella pancia, un bisogno di dolcezza – quello stesso bisogno che la lotta quotidianamente esclude. […] Se ne stava così, nel silenzio limpido, vinta dal sonno, intrinsa di sonno, abissalmente comica, serissima, vulnerabile, indistruttibile.
(pag.107)
 
Addentrandosi negli svolgimenti, è inevitabile finire avvolti da un anno, il 1978 che è atmosfera, budella in (con)trazione e stordimento, percezione sottile e mutevole di ’una’ realtà concreta. E’ come se Vasta avesse preso ‘quel’ mondo, ci fosse entrato (una sorta di ’viaggio nel tempo’ alla Marty McFly ma con nessuna intenzione di divertirsi anzi, con ogni ’recettore’ in perenne tensione e ascolto) facendolo suo, ricostruendolo entro dettagli di ogni aspetto (descrittivo tra location, gesti, azioni, elementi sociali e individuali). E mentre lo fa suo, lo ricolloca in primis attraverso gli occhi del protagonista. E’ un passato che il lettore tende a slittare in un ’presente’ improvvisamente vicino, quasi tangibile, toccabile, dove ’rischiare’ scoperte anche storiche (sebbene gli accadimenti storici nazionali sono evidentemente gli unici fatti che il lettore può ragionevolmente già conoscere, senza bisogno di leggere il romanzo). ’Rischiare’ perché la lingua che impasta, fa emergere, tratteggia scene, non opera di ’certezze’, gli sviluppi narrativi non si lasciano prevedere nemmeno nella scansione cronologica. Le Br o Aldo Moro il lettore se li aspetta, ad esempio, proprio per l’allocazione in un preciso contesto storico italiano, allocazione inequivocabile dalle prime pagine. Ma non sa ’come’ aspettarseli. Non può (sempre da considerarsi esempio assestante in questo contesto riflessivo) immaginare in che modo la morte di Moro entrerà nella vita dei personaggi, né che il protagonista si sentirà (declinandola a semi convinzione) come se lo avesse ’mangiato’ (senza voler svelare nulla di più su trama e simboli). Il lettore non è preparato all’elemento storico di questo 1978 tra i reticolati basilari del romanzo, non è preparato a finirci dentro sentendoci ’quasi’ un presente carnale (ma restando consapevole del ’passato storico’).
 
Infine, ci sono spesso alternanze entro la struttura narrativa. Alternanze di scene dense, con accadimenti o riflessioni pesanti subito interrotte da virate nette. Ma anche alternanze di ‘velocità’ ad esempio realizzate inserendo dialoghi politicamente e socialmente importanti, entro tratteggi di scene quotidiane, quasi banali.
 
Essere colpevoli è una responsabilità. Le Brigate Rosse si stanno assumendo questa responsabilità.
Stanno rendendo Moro innocente, dico.
E’ vero, fa Scarmiglia, sta succedendo anche questo ma è inevitabile. Se qualcuno ha il coraggio di essere colpevole crea delle conseguenze. E una conseguenza è fare di Moro una vittima.
[…]
Mentre parliamo sento sulla pelle il sole di maggio, i grilli sparsi intorno, qualche ape, la loro psicosi in primavera.
Le Br, dico, sono le uniche ad aver capito che se il sogno resta da solo diventa secco.
(pag. 74)
 
 
On line è possibile rintracciare altre scritture di Vasta, ad esempio su Nazione Indiana (link tra le fonti – n.d.r.) con l’accortezza nel caso specifico di cercare i pezzi a lui attribuiti, avendo Vasta proposto spesso entro il collettivo scritture, pezzi e analisi di altri.
 
 
C’è un unico Giorgio Vasta. Evidentemente.
L’intento di questo ‘transito’ è di proporne alcuni aspetti, angoli di visuale entro percezioni di talento, capacità, scritture, conoscenze, umanità. Tra affondi parziali, parole e voci di carne.
 
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Riporto in chiusura, alcuni stralci di un intervento di Giuseppe Genna (link all’originale tra le fonti - n.d.r.), dopo una presentazione milanese di ’Il tempo materiale’ in cui era relattore:
< Giorgio Vasta mi parlava dell’aprogettualità della materia, del rombo basso continuo della materia. Io pensavo alla resistenza che si oppone a qualunque fenomeno esista, allo stupro della quiete naturale che viene compiuto dal manifestarsi, dal gigantesco fenomeno, anche fosse minutissimo…
A un dato momento, Giorgio Vasta ha parlato di “esigenza drammaturgica”. Qui la fitta è stata più acuta. Il cuore non è sacro, ma sconta le perforazioni delle sue spine volgari. [...]
L’esigenza drammaturgica, dunque. Il dràn greco: agire.
Agire significa lasciare una sede in quiete per raggiungere un’altra sede in quiete, vincendo una resistenza nel muoversi (per questo “agire è soffrire” o “subire” secondo Eschilo: si è impotenti a fronte della resistenza che è la catastrofe precipatata anche sulla minima azione – e quindi: dràn pàthein). Agire non significa affatto strutturare un’azione. L’esigenza drammaturgica è l’esigenza di rappresentare un’azione oppure la necessità di strutturare una leggibilità dell’azione (parto, mi muovo, compio, mi fermo)?
E’ dunque qui, fuori dalla parola, fuori dal testo, seppure testualizzabile, indifferentemente danza immagine scultura performance vita, che mi si pone il problema di essere all’altezza di una radicalità artistica, la quale esula da me: è semplicemente se stessa.
Non esiste movimento senza resistenza e, quindi, fatica – a meno che il movimento non sia di amore. Va fatto questo.
E’ possibile. Forse: la cultura ha raggiunto probabilmente un suo confine estremo, la celebrità è una fluorescenza che divora e lascia spazio al buio che deve ancora essere benedetto nuovamente - il che conferisce un ultremo compito alle nostre lingue, ai nostri gesti, alla distruzione dei nostri codici e all’abolizione delle violenze di tutte le norme che abbiamo tollerato e ancora dobbiamo esperire.
Potrei accordare tutto questo gesto, tutto questo movimento alla sete di completezza.>
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Segnalo anche un’intervista recente a Giorgio Vasta pubblicata sul Lit Blog Sul Romanzo (link tra le fonti - n.d.r.)
 
[stralcio] " Se penso al percorso normale, quello delle scuole elementari, è chiaro che non c’è nulla di fortuito bensì la classica regolarità che prevede, raggiunti i cinque sei anni, l’apprendimento della parola scritta. Se invece devo pensare a una focalizzazione sulla scrittura, un primo momento di consapevolezza, credo che grosso modo negli stessi anni in cui ho imparato a scrivere – ancora nel senso di comporre le lettere che danno forma alle parole – mi sono accorto che in quell’azione c’era qualcosa che mi incuriosiva, qualcosa che trascendeva la pura e semplice costruzione delle frasi. Non mi riferisco a un valore simbolico, non parlo dei significati ma di un fenomeno strettamente fisico. Quello che nella paleografia si chiama ductus, vale a dire l’andamento, la traiettoria che la mano che impugna la penna disegna nello spazio tracciando dei segni su un foglio di carta, mi sembrava e continua a sembrarmi un fenomeno straordinario, fabbricazione e distruzione insieme. Il mio avvicinamento alla scrittura, dunque, è stato prima di tutto un fatto materiale, la scoperta di un modo di esistere del corpo."
 
Sempre dal lit blog Sul Romanzo (ideato e gestito da Morgan Palmas) , consiglio la lettura di un pezzo, ’Giorgio Vasta e anteprima nazionale - frammento 18’ (il seguito prossimamente sempre nello spazio web di Sul Romanzo. Link tra le fonti - n.d.r.). E lo consiglio anche nell’ottica di un ’open mind’ generale che unisce logiche, voci e collegamente (anche entro la ’variabile umana autore’ evidentemente, non soltanto riferita a Giorgio Vasta):
 
"Vi chiederete forse che cosa c’entri la Russia e la sua poesia con Giorgio Vasta. Non sto sragionando. Ci sto pensando da qualche mese.
Venerdì scorso ho avuto il piacere di ascoltarlo presso la libreria La Bassanese di Bassano del Grappa, evento organizzato per presentare “Anteprima nazionale – nove visioni del nostro futuro invisibile”, raccolta di racconti di Avoledo, Celestini, Evangelisti, Genna, Wu Ming 1 e altri nomi importanti della contemporaneità letteraria italiana. Ho scambiato qualche parere per alcuni minuti con Vasta e ha rafforzato ancor più in me le riflessioni che tenterò di mettere nero su bianco."
 
 
 
 
Fonti
Giorgio Vasta su YouTube.
Giorgio Vasta su Nazione Indiana.
L’esigenza drammaturgica di Giuseppe Genna.
Intervista a Giorgio Vasta, pubblicata da Sul Romanzo il 10 novembre 2009.
Giorgio Vasta e anteprima nazionale - frammento 18, pubblicata da Sul Romanzo il 30 novembre 2009.
 
Nello scaffale
Il tempo materiale, Minimum Fax, 2008.
 
 
 
 
 

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